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People For Planet è stato un bel viaggio. Ma questo è solo un arrivederci

La prima volta era di primavera, a una manifestazione, nel ’17 del nuovo millennio.
Non ricordo esattamente il tema. Era la tutela dei diritti, questo lo ricordo. Di chi? Forse dell’ambiente. O degli immigrati. O degli Lgbt. O dei giovani. O… Probabilmente di tutto questo insieme. Una manifestazione allegra, colorata, solare. Tante famiglie, tanti giovani. Saluti tra gente che si conosceva già e sorrisi con quelli che non si conoscevano ancora.
Ero lì con Jacopo e Bruno, e fu quella la prima volta che sentii parlare di quello che sarebbe diventato People For Planet. “Che ne dici di fare un giornale green online?” mi dissero.
Niente male, pensai.
Poco tempo dopo, ormai d’estate, ci ritrovammo alla Libera università di Alcatraz, con il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la redazione.
Giorni fantastici di idee in libertà, alcune geniali, altre insensate, altre ancora folli. E poi proposte per rendere la follia concreta e realizzabile.
Una esplosione di creatività.
Poche cose sono divertenti come creare dal nulla qualcosa di nuovo.
E tra queste, pochissime sono divertenti come creare dal nulla un giornale.
Dopo alcuni mesi di numeri zero e di rodaggio, a gennaio ’18 nasceva ufficialmente la nuova creatura.
Sin da subito, e poi per tutti i quasi quattro anni della sua vita, People For Planet si è rivelato molto simile a quella manifestazione: un giornale con un cuore verde e con una grande attenzione ai diritti delle minoranze. E poi ampio spazio alla salute, al benessere, alla cultura.
Abbiamo cercato di mescolare temi seri e altri più leggeri, spaziando da articoli anche “tecnici” a video a tutto campo, non ultimi – e di notevole successo – quelli ironici o dichiaratamente satirici.
Col tempo, il nucleo iniziale della redazione e dei collaboratori è cambiato e cresciuto, fino a coinvolgere decine di persone, in gran parte donne (chissà perché, nelle cose belle le donne spesso sono la maggioranza).
Un patrimonio di relazioni, professionalità e positività che non credo andrà disperso.
Perché ora questo capitolo finisce, ma non per questo è arrivata la parola fine.
Ci saranno altre iniziative, altre idee da realizzare. E se vorrete essere con noi, come in tanti siete stati con noi in questa avventura, sarete i benvenuti.
Questo non è un addio, è un arrivederci.
People For Planet è stato un bel viaggio. Come dice Ryszard Kapuscinski, uno che di giornalismo e di viaggi se ne intende: “Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati.
È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”.

 

di Sergio Parini

https://ift.tt/2UCJCvm

People For Planet non basta più. Per questo lo chiudiamo.

Saranno trascorsi 1258 giorni dalla nascita di People For Planet, 29 gennaio 2018, alla data di cessazione delle pubblicazioni, 10 luglio 2021.

Circa 7.000 articoli, video, infografiche pubblicati, oltre 15 milioni di lettori nel corso del tempo, oltre 30 milioni di articoli letti, oltre 20 milioni di video visti, tutto questo in soli 3 anni e mezzo…

Ebbene, tutto questo non basta più. Ci siamo convinti, mi sono convinto, che non basta più denunciare le storture di un sistema che manda a rotoli il pianeta e segnalare le cose buone che qui e là accadono.

Nel momento in cui tutte le imprese parlano del loro impegno green, quasi sempre continuando a fare come prima; nel momento in cui non c’è giornale, canale televisivo, radio, sito web che non abbia un angolo, una sezione, un inserto “ambientalista” mentre continua a fare pubblicità a prodotti nocivi, non basta più fare un giornalismo di nicchia, coscienzioso ma sommerso, diluito in un sistema che, come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, cambia qualcosa in superficie perché non cambi nulla nella sostanza.

 

È sbagliato pensare di risolvere grossi problemi con il solo ausilio delle patate fritte (Douglas Adams – La vita, l’universo e tutto quanto)

 

Mentre il Canada arrostisce a temperature di 50 gradi a causa dei cambiamenti climatici e i media e i politici italiani trattano la cosa con lo stesso distacco con cui trattavano il Covid quando pensavano fosse un affare circoscritto alla Cina, è arrivato il momento di cambiare approccio.

Mentre il governo Draghi, osannato dai media mainstream, si aggiudica la maglia nera in Europa per la percentuale (la più bassa tra tutti i Paesi) di fondi del Racovery Fund destinati ad iniziative ecosostenibili (solo il 13%), è arrivato il momento di cambiare approccio.
Non basta più solo un giornalismo di denuncia ma occorrono iniziative di cambiamento da portare avanti con tenacia e determinazione finché abbiano avuto successo e anche dopo, perché non si arretri dai risultati raggiunti.
E, per fare questo, la forma “giornale green” come la conosciamo e come è stato anche People For Planet, non è (più) adatta.

Occorre altro: una “nuova cosa” composta da persone impegnate nella ricerca di soluzioni concrete, efficaci e fattibili, capace di fare lobby, capace di fare comunicazione coinvolgendo ampi strati di altre persone, capace di “fare scandalo” quando serve, capace di non mollare la presa fino a quando sia stato raggiunto il risultato e anche dopo.

E occorre una formula di business che consenta a questa “nuova cosa” di autofinanziarsi.
Occorre una cosa semplice, che è difficile a farsi.

Penso che ci proveremo, non è detto che ci riusciremo ma penso che ci proveremo. E magari dalla crisalide nascerà una farfalla.

Per ora grazie a tutte e tutti quelli che hanno seguito People For Planet in questi 1258 giorni.

 

di Bruno Patierno

 

 

Foto di Vivek Doshi, scattata a Ghandinagar, India


https://ift.tt/2U2P4Yz

People For Planet è stato un bel viaggio. Ma questo è solo un arrivederci

La prima volta era di primavera, a una manifestazione, nel ’17 del nuovo millennio.

Non ricordo esattamente il tema. Era la tutela dei diritti, questo lo ricordo. Di chi? Forse dell’ambiente. O degli immigrati. O degli Lgbt. O dei giovani. O… Probabilmente di tutto questo insieme. Una manifestazione allegra, colorata, solare. Tante famiglie, tanti giovani. Saluti tra gente che si conosceva già e sorrisi con quelli che non si conoscevano ancora.

Ero lì con Jacopo e Bruno, e fu quella la prima volta che sentii parlare di quello che sarebbe diventato People For Planet. “Che ne dici di fare un giornale green online?” mi dissero.

Niente male, pensai.

Poco tempo dopo, ormai d’estate, ci ritrovammo alla Libera università di Alcatraz, con il primo nucleo di quella che sarebbe diventata la redazione.

Giorni fantastici di idee in libertà, alcune geniali, altre insensate, altre ancora folli. E poi proposte per rendere la follia concreta e realizzabile.

Una esplosione di creatività.

Poche cose sono divertenti come creare dal nulla qualcosa di nuovo.

E tra queste, pochissime sono divertenti come creare dal nulla un giornale.

Dopo alcuni mesi di numeri zero e di rodaggio, a gennaio ’18 nasceva ufficialmente la nuova creatura.

Sin da subito, e poi per tutti i quasi quattro anni della sua vita, People For Planet si è rivelato molto simile a quella manifestazione: un giornale con un cuore verde e con una grande attenzione ai diritti delle minoranze. E poi ampio spazio alla salute, al benessere, alla cultura.

Abbiamo cercato di mescolare temi seri e altri più leggeri, spaziando da articoli anche “tecnici” a video a tutto campo, non ultimi – e di notevole successo – quelli ironici o dichiaratamente satirici.

Col tempo, il nucleo iniziale della redazione e dei collaboratori è cambiato e cresciuto, fino a coinvolgere decine di persone, in gran parte donne (chissà perché, nelle cose belle le donne spesso sono la maggioranza).

Un patrimonio di relazioni, professionalità e positività che non credo andrà disperso.

Perché ora questo capitolo finisce, ma non per questo è arrivata la parola fine.

Ci saranno altre iniziative, altre idee da realizzare. E se vorrete essere con noi, come in tanti siete stati con noi in questa avventura, sarete i benvenuti.

Questo non è un addio, è un arrivederci.

People For Planet è stato un bel viaggio. Come dice Ryszard Kapuscinski, uno che di giornalismo e di viaggi se ne intende: “Un viaggio non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati.

È il virus del viaggio, malattia sostanzialmente incurabile”.

Sergio Parini

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People For Planet non basta più

Saranno trascorsi 1258 giorni dalla nascita di People For Planet, 29 gennaio 2018, alla data di cessazione delle pubblicazioni, 10 luglio 2021.

Circa 7.000 articoli, video, infografiche pubblicati, oltre 15 milioni di lettori nel corso del tempo, oltre 30 milioni di articoli letti, oltre 20 milioni di video visti, tutto questo in soli 3 anni e mezzo…

Ebbene, tutto questo non basta più. Ci siamo convinti, mi sono convinto, che non basta più denunciare le storture di un sistema che manda a rotoli il pianeta e segnalare le cose buone che qui e là accadono.

Nel momento in cui tutte le imprese parlano del loro impegno green, quasi sempre continuando a fare come prima; nel momento in cui non c’è giornale, canale televisivo, radio, sito web che non abbia un angolo, una sezione, un inserto “ambientalista” mentre continua a fare pubblicità a prodotti nocivi, non basta più fare un giornalismo di nicchia, coscienzioso ma sommerso, diluito in un sistema che, come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, cambia qualcosa in superficie perché non cambi nulla nella sostanza.

È sbagliato pensare di risolvere grossi problemi con il solo ausilio delle patate fritte (Douglas Adams – La vita, l’universo e tutto quanto)

Mentre il Canada arrostisce a temperature di 50 gradi a causa dei cambiamenti climatici e i media e i politici italiani trattano la cosa con lo stesso distacco con cui trattavano il Covid quando pensavano fosse un affare circoscritto alla Cina, è arrivato il momento di cambiare approccio.

Mentre il governo Draghi, osannato dai media mainstream, si aggiudica la maglia nera in Europa per la percentuale (la più bassa tra tutti i Paesi) di fondi del Racovery Fund destinati ad iniziative ecosostenibili (solo il 13%), è arrivato il momento di cambiare approccio.

Non basta più solo un giornalismo di denuncia ma occorrono iniziative di cambiamento da portare avanti con tenacia e determinazione finché abbiano avuto successo e anche dopo, perché non si arretri dai risultati raggiunti.

E, per fare questo, la forma “giornale green” come la conosciamo e come è stato anche People For Planet, non è (più) adatta.

Occorre altro: una  “nuova cosa” composta da persone impegnate nella ricerca di soluzioni concrete, efficaci e fattibili, capace di fare lobby, capace di fare comunicazione coinvolgendo ampi strati di altre persone, capace di “fare scandalo” quando serve, capace di non mollare la presa fino a quando sia stato raggiunto il risultato e anche dopo.

E occorre una formula di business che consenta a questa “nuova cosa” di autofinanziarsi. 

Occorre una cosa semplice, che è difficile a farsi.

Penso che ci proveremo, non è detto che ci riusciremo ma penso che ci proveremo. E magari dalla crisalide nascerà una farfalla.

Per ora grazie a tutte e tutti quelli che hanno seguito People For Planet in questi 1258 giorni.

Foto di Vivek Doshi, scattata a Ghandinagar, India

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Dalle sartorie sociali arrivo “OSO”, una linea di abbigliamento etica e sostenibile pensata da giovani

Unisce il rispetto dell’ambiente e delle sue tante diversità, il sostegno alle persone più fragili e la tutela dei diritti dei lavoratori. Allo stesso tempo punta sui giovani, sulla loro creatività, sulla passione che questa generazione sta dimostrando per il Pianeta. Si chiama “OSO – Vestire etico e inclusivo” ed è la nuova linea di abbigliamento in vendita nei negozi NaturaSì. Un made in Italy tutto puntato all’etica.

E’ una linea di abbigliamento ‘speciale’ perché pensata e disegnata dai giovani del nostro Laboratorio 2050 nel rispetto dell’ambiente, utilizzando solo tessuti di cotone certificati GOTS (Global Organic Texil Standard), fibre di bambù ed alga, prodotta e confezionata da una rete di sartorie sociali che garantiscono un lavoro dignitoso a donne con un vissuto di fragilità o vittime di violenza. Perché pensare bio per noi significa anche questo: non lasciare indietro nessuno e rifiutare ogni tipo di sfruttamento.” commenta Fausto Jori, Amministratore delegato di NaturaSì, la più grande realtà del biologico in Italia. 

Del resto la scelta di NaturaSì quest’anno è stata proprio quella di aprirsi di più ai giovani, con una serie di iniziative sviluppatesi dentro l’azienda stessa, con la nascita di Laboratorio 2050, “perché il miglior modo di sensibilizzare i giovani è stare con i giovani”, precisa Jori.

L’azienda ha dato corpo all’impegno sociale con il progetto “Naturabile”, a sostegno dell’inclusività, dell’ecosostenibilità e dell’eticità con particolare attenzione alla fragilità fisica ed emotiva.
Da questi presupposti è scaturita la collaborazione di NaturaSì con la Fondazione Corte delle Madri di Bereguardo, Quid, Made in GOEL e Fatto A Scampia per una nuova linea di abbigliamento green ed etica, ideata e disegnata dai giovani, che hanno scelto anche il marchio “OSO vestire etico e inclusivo” per sottolineare la voglia di “osare per realizzare il cambiamento”, e confezionata da questa rete di sartorie sociali.

Realtà conosciute nel Paese che supportano persone a cui è stata tolta la dignità, inserendole in un circuito virtuoso dove si crea un Made in Italy di eccellenza, nel rispetto degli stringenti criteri sociali e ambientali applicati a tutto il ciclo di produzione. Dalle donne che hanno ritrovato fiducia e speranza nei tre laboratori di Quid (il cui focus trasversale è l’impiego al femminile: oggi le donne rappresentano l’84% della forza lavoro, il 78% del management e il 67% del Cda), alle persone svantaggiate che trovano letteralmente “riscatto” in Made in GOEL, opponendosi alle mafie in Calabria e nel resto d’Italia. Per arrivare alle persone in stato di fragilità economica e sociale a cui Fatto a Scampia dà la possibilità di svolgere regolarmente un lavoro e di integrarsi, in una parte dell’Italia dove la presenza della malavita organizzata rappresenta spesso l’unica opportunità di vita.
La prima collezione OSO è composta da cinque capi, tre unisex e due da donna: una t-shirt, una felpa e un kimono, una blusa a mezze maniche e una felpa smanicata. I capi OSO sono pensati per essere indossati tutto l’anno e rinnovati ad ogni stagione con accessori e tinture vegetali che saranno presenti nella collezione autunnale. 

Il messaggio di fondo è che ‘tanto è troppo’, forse soprattutto, nella moda. Nella produzione vengono poi utilizzati esclusivamente tessuti ecosostenibili, tra cui il cotone biologico, che risulta più morbido e traspirante di quello coltivato in agricoltura intensiva, e il Seacell, ricavato dalla lavorazione delle alghe brune. Il Seacell risponde molto bene ai requisiti di ecosostenibilità della produzione e delle lavorazioni. Caratteristica molto interessante è la protezione che offre contro i raggi UV e la trasferibilità (assicura il 50% di protezione in più del cotone).

Abbiamo pensato ad un progetto che fosse ‘eco’ a 360 gradi e che invogliasse a osare per cambiare un modello di vita che si è dimostrato iniquo e dannoso per l’ambiente, oltre che per la salute“, aggiunge Sara Lucchi, Responsabile del progetto per NaturaSì. “Crediamo che i giovani abbiano il coraggio di essere diversi, nei pensieri e nelle azioni. Grazie alla collaborazione con la rete di sartorie sociali vogliamo essere parte del cambiamento attraverso una condivisione di valori tra chi crea, chi produce e chi indossa”, conclude.

A sottolineare il collegamento con i giovani, testimonial del progetto OSO è Enula, cantante milanese nota al pubblico per aver partecipato ad un talent show e già volontaria della Fondazione Corte delle Madri.
I capi della linea OSO si possono richiedere in tutti i negozi NaturaSì (con consegna in 72 ore laddove non immediatamente disponibili) e possono essere ordinati  online sul sito di NaturaSì . Ogni capo è venduto in una scatola che potrà essere riciclata. Dopo l’acquisto il cliente può lasciarla direttamente al negoziante oppure riportarla durante la spesa successiva. In cambio riceverà dei campioni gratuiti di alcuni prodotti cosmetici per la cura del corpo. Per ogni capo acquistato, inoltre, troverà nella scatola in omaggio una busta di semi che daranno fiori utili per le api e/o di semi antichi e in via di estinzione, oltre ad una spilla OSO.
Potrà, inoltre, essere prenotata online dal sito OSO una visita guidata gratuita presso le aziende agricole biologiche e biodinamiche del circuito di NaturaSì. 

QUID
Cooperativa sociale che ha come prerogativa quella di recuperare tessuti di eccedenza e di realizzare poi prodotti, soprattutto capi di abbigliamento, per mano di donne con passato di fragilità creando per loro opportunità d’impiego stabile, di formazione e di crescita lavorativa. La produzione impiega tessuti di fine serie, stock invenduti o donati da prestigiose aziende tessili italiane e da noti brand del mondo della moda internazionale. Questa peculiarità produttiva evita di destinare al macero tessuti pregiati, consentendo un ridotto impatto ambientale anche in termini di carbon footprint, dato che la maggior parte dei fornitori si trova in Italia a meno di 200km di distanza dalla sede Quid.

Made in GOEL
GOEL significa “il riscattatore”: il gruppo si oppone a tutto ciò che nega la dignità delle persone, con particolare riguardo alle più indifese. Ha denunciato lo strapotere della ‘ndrangheta e delle massonerie deviate in Calabria e nel resto d’Italia. Nasce per dimostrare che l’etica non è solamente “giusta” moralmente, ma anche “efficace”, ovvero l’unica via per uno sviluppo davvero sostenibile dei territori. Made in GOEL inserisce al lavoro persone svantaggiate e include nella propria filiera laboratori del territorio qualificati, specializzati in varie tipologie di servizi e di produzioni, in grado di fornire servizi altamente personalizzabili. 

Fatto a Scampia
La Cooperativa ha come scopo il coinvolgimento di persone svantaggiate in attività lavorative regolarmente svolte: un laboratorio di sartoria e uno di legatoria e cartotecnica. Attualmente la sartoria ospita sia giovanissimi del territorio impegnati nel percorso di alternanza scuola-lavoro, passaggio fondamentale per la crescita professionale e personale degli studenti; sia tirocinanti, quasi sempre giovani donne extracomunitarie, che vengono formate e avviate al lavoro. Usufruendo dell’insegnamento delle socie e delle attrezzature del laboratorio infatti, queste giovani donne migliorano le proprie competenze e si confrontano con una vera e propria realtà lavorativa, preparandosi così al mondo del lavoro per migliorare la condizione socio-economica personale e delle proprie famiglie.

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Consigli utili per salvare un animale in difficoltà

Consigli utili per salvare un animale in difficoltà

Torniamo al Giardino delle Capinere di Ferrara per chiedere a Lorenzo Borghi, Responsabile Lipu sezione Ferrara, alcuni consigli su come comportarsi in caso si trovi un animale selvatico ferito e in difficoltà.

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Come lavare correttamente i capelli? Ecco le 10 regole

consigli capelli perfetti

Dal canale Lo so alcuni consigli utili degli specialisti per una chioma perfetta.

Vi ricordiamo che, per la salute del vostro corpo e della Terra che abitiamo, potete scegliere soluzioni ecologiche anche nella vostra routine quotidiana! Cosmetici, shampoo, saponi… scegliete quelli plastic free ed ecologici!

Fonte: Lo so

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Fairbnb, l’alternativa etica ad Airbnb

Se dovessimo
descrivere in poche parole Fairbnb, basterebbe dire che si pone come un’opzione
più sostenibile rispetto a piattaforme come Airbnb
, che offrono un servizio
simile per i viaggiatori alla ricerca di una sistemazione temporanea. La
differenza che salta immediatamente all’occhio è che, in questo caso e secondo
le promesse, al territorio rimangono
metà dei profitti
.

Resta però
una questione aperta: la sharing economy porta indubbi vantaggi ma a
volte sa anche mietere vittime: gli alberghi lamentano di essere stati colpiti
duramente da questi nuovi competitor che si muovono su un terreno
normativo più agevole. Di sicuro al cliente non dispiace questa nuova forma di
ospitalità.

Fairbnb.coop nasce nel 2016. Tre anni fa era un movimento con l’obiettivo di creare un’alternativa alle piattaforme di home sharing esistenti che fosse equa.

Le città di
partenza sono state Venezia, Amsterdam e
Bologna
, poi hanno iniziato ad aderire altri gruppi da tutta Europa che
hanno contribuito a sviluppare il modello finale che ad oggi è in fase di
attuazione.

Alla fine
dello scorso anno è stata creata una cooperativa che agisse da entità legale di
supporto al progetto, un’organizzazione aperta in cui si pensa di accogliere
altri aderenti.

Fairbnb.coop
si definisce come “una comunità di
cittadini attivi, ricercatori e persone provenienti dalle più varie esperienze
professionali che mirano a riportare la parola share (condivisione) nella sharing economy”.

L’idea alla
base è che la comunità ospitante va posta al centro e che vanno privilegiate le persone prima che il profitto.
Allo stesso tempo, l’offerta ai turisti è di esperienze di viaggio autentiche e sostenibili, con ricadute positive a livello sociale.

Secondo il
progetto, metà dei ricavi vanno
investiti in progetti di sostenibilità locali
che mirano a contrastare gli
effetti negativi del turismo. Se i
profitti restano il più possibile all’interno delle comunità e dei territori

la piattaforma si pone anche come mezzo di supporto e miglioramento attraverso iniziative
che spaziano dal social housing ai giardini
comunitari.

Quel “fair”
che compare nel nome della piattaforma è frutto di più fattori, tra cui
l’intenzione di condividere, con la massima
trasparenza
, i propri dati con le amministrazioni locali
perché possano analizzare il reale impatto del turismo; inoltre, si
applica la regola “1 casa – 1 host” per evitare l’ingresso di multi-proprietari
nella piattaforma e poter identificare un tipo di host sostenibile con
il mercato immobiliare per i residenti. Fin qui nessuna obiezione. Ma le anche
idee tanto sostenibili possono avere ripercussioni.

Abbiamo già affrontato il problema di come la sharing economy e la
sua degenerazione, soprattutto in città d’arte e mete turistiche, abbia portato
ad una trasformazione sregolata del patrimonio immobiliare e della sua
destinazione d’uso, sottratto ai residenti a favore del turista mordi e fuggi.
Venezia è l’esempio più citato: l’overtourism sta soffocando la città e
la maggior parte degli annunci immobiliari  sono ormai transitori e per non
residenti
. Conviene affittare per periodi brevi, con ricavi anche fino a mille
euro alla settimana, piuttosto che ai residenti. Nel caso di Venezia abbiamo documentato il
paradosso
per cui mancano alloggi di edilizia residenziale pubblica per i
veneziani
, case che in realtà esisterebbero ma restano sfitte e non
recuperate né recuperabili per anni: i residenti che vogliono riappropriarsi
della propria città non trovano spazi e si ritrovano “costretti” a occupare
quelle case sfitte, a rimetterle in sesto a proprie spese, nell’illegalità di
fatto, ma ripopolando giorno dopo giorno un territorio privato dell’autenticità
che soltanto un residente sa conferire. Tutto questo mentre le strade sono
invase selvaggiamente da turisti per lo più ignari della situazione, che
alloggiano in appartamenti affittati a caro prezzo o edifici interi anche di
pregio trasformati in hotel di lusso.

Ma il problema è molto più ampio. Parallelamente all’affermarsi di Airbnb e simili c’è una categoria particolare che si è sentita minacciata e lamenta la carenza di regole ferree applicate agli host. Gli albergatori si sentono minacciati. L’associazione che li rappresenta, Federalberghi, ha denunciato più volte, l’ultima proprio recentemente, il fenomeno: si moltiplicano gli alloggi su Airbnb così come le attività extralberghiere, con un conseguente aumento di servizi fai-da-te che producono una concorrenza sleale senza precedenti. Un far west, in cui gli annunci online non sono affatto una forma integrativa del reddito ma una vera attività, spesso con soggetti che gestiscono più alloggi, peraltro messi a disposizione ben oltre i sei mesi all’anno fissati come regola.  I dati confermano i timori: si registra un notevole calo di presenze e di fatturato per gli hotel. Solo a Roma, nel 2018 i numeri parlano di un -7,3% dei ricavi rispetto al 2017 nonostante l’aumento del prezzo delle stanze. Airbnb ha replicato più volte alle accuse, intanto varie città nel mondo sono corse ai ripari. A Barcellona  si possono affittare al massimo due stanze per appartamento, per non oltre 4 mesi all’anno e a patto che il proprietario vi risieda. Stessa regola della residenza del proprietario anche a New York, non è possibile affittare appartamenti interi. A Parigi si può affittare non oltre i 120 giorni all’anno, i proprietari devono iscriversi in un registro pubblico e l’amministrazione comunale ha dichiarato di voler vietare l’affitto nei primi quattro arrondissement per evitare uno spopolamento ulteriore del centro cittadino.

Fonte foto: https://fairbnb.coop/it/

Articolo del 3 Agosto 2020

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“Seguite i soldi, non gli uomini”: i nuovi criteri di valutazione del merito nel credito al consumo

debito soldi

Il futuro del credito al consumo (finanziamenti concessi dalle banche o società finanziarie per permettere al beneficiario l’acquisto di beni e servizi o eventualmente la rateizzazione di una spesa) dovrà basarsi su un modello molto simile a quello utilizzato da Amazon per la vendita dei prodotti di largo consumo.

Le istituzioni creditizie che per prime diventeranno le Amazon dei prestiti avranno un vantaggio competitivo di un quinquennio (poi saranno copiate) che le farà uscire dalle paludi delle perdite (in bilancio) e assicurerà loro la sopravvivenza.

Il modo migliore per metabolizzare questa premessa è capire e vedere come funziona oggi il processo di erogazione di un prestito nella maggior parte degli istituti di credito e nelle società finanziarie. Semplifichiamo i concetti: sostanzialmente quando un privato cittadino va a richiedere un prestito, la banca (o la società finanziaria) ha bisogno di due tipi di informazioni.

Uno legato alla “quantità” della domanda: di quanto hai bisogno? In quanto tempo deve essere ripagato il prestito? Quale è l’importo della rata che puoi sostenere ?

In secondo luogo, vengono chieste informazioni sulla “qualità” della persona: che lavoro fai? Dove abiti? Quale è la tua origine? Quale è il tuo stipendio?

Queste informazioni vengono poi “processate” (verificate ed elaborate) da un algoritmo che innanzitutto controlla la storia creditizia di quella persona: ha già ricevuto altri prestiti? Come li ha condotti? Ci sono prestiti che non sono stati rimborsati?

Nel caso in cui il richiedente abbia avuto problemi con i prestiti pregressi oppure, paradossalmente, non ha (finora) mai chiesto un finanziamento (e quindi non e’ possibile valutarne la solvibilità), la richiesta viene sicuramente rifiutata.

Se invece il richiedente supera favorevolmente questa selezione, l’algortimo fa un secondo controllo e cioè verifica se persone che hanno lo stesso lavoro, la stessa provenienza geografica, la stessa età e lo stesso stipendio sono di solito dei cattivi pagatori.

Cioè l’algoritmo verifica se richiedenti con le stesse caratteristiche socio-demografiche appartengono a categorie di “buoni pagatori” o di “cattivi pagatori”.

Tale appartenenza determina l’accettazione o il rifiuto della concessione.

In altri termini, tu puoi essere la persona più onesta e corretta di questo mondo ma se hai la “sfortuna” di fare una professione, avere una età o vivere nella stessa area geografica di “cattivi pagatori”, allora paghi la cattiva reputazione dei tuoi “simili”. Il prestito non lo vedrai mai!

Esempi facili da riscontrare soprattutto quando si tratta di acquisti nel settore della tecnologia (smartphone) o dell’automotive (automobile). Mi è capitato di vivere una esperienza del genere la settimana scorsa quando un mio cliente, imprenditore di successo, solido e solvibile, si è visto rifiutare un piccolo prestito per l’acquisto di una autovettura richiesto unitamente alla moglie, extracomunitaria e casalinga.

L’unica risposta fornita dalla banca: “ci sono segnalazioni negative nelle banche dati creditizie”.

Una indicazione generica, senza specificare il tipo di informazione negativa o il “peso” della negatività. Semplicemente consegnando un elaborato come quello qui allegato.

Analizzando poi in profondità le cause del rifiuto abbiamo scoperto che il motivo era legato al fatto che uno dei richiedenti (la moglie) “non aveva storia creditizia ed apparteneva ad un cluster (gruppo) senza reddito e con scarse probabilità di averne uno stabile in futuro”. .

Un criterio assolutamente classista e fortemente influenzato da pregiudizi di natura socio-demografica.

E se si cambiassero semplicemente le logiche di costruzione del “gruppo di appartenenza”? Se per capire se si tratta di buoni o cattivi pagatori, piuttosto che aggregarli secondo parametri molto macro (l’età o la residenza), andassimo a verificare (dopo averne chiesto il permesso e garantita la riservatezza) le transazioni e successivamente raggruppassimo le persone in base alla tipologia di movimenti bancari?

Ricordate quanto diceva il giudice Falcone per individuare altri tipi di “cattivi”?

“Seguiamo il denaro, non gli uomini …… e capiremo tutto”!

Ecco questa e’ la logica di base seguita da Faire.ai (https://www.faire.ai/), fintech B2B specializzata nell’automazione del credito al consumo che sfrutta l’open banking (PSD2) come fonte di dati e utilizza il machine learning e l’intelligenza artificiale per stimare i modelli di rischio dei consumatori.

Come ha ragionato Faire.ai, che, da qualche settimana, ha lanciato sul mercato le prime API (software) ?

Anche in questo caso, cosi come ribadito in Salviamoci! (Chiarelettere), cercherò di semplificare, ben consapevole di non voler assolutamente sminuire il valore degli studi e delle competenze tecniche e professionali indispensabili, per i giovani di Faire.ai,  per arrivare a questi risultati ma sicuramente per rendere piu’ leggibile ai dinosauri della finanza una esigenza che, ormai, e’ diventata necessità.

In parole povere, per innovare la metodologia di analisi nel credito a consumo, Faire.ai ha raggruppato le persone in base alle abitudini di spesa: ad esempio tutti quelli che fanno grosse spese in tecnologia, oppure ingenti spese in viaggi e così via……

Analizzando questi cluster ed utilizzando la giusta tecnologia e’ possibile, poi, stimare la probabilità di default di un richiedente un prestito semplicemente osservando determinati andamenti di tutte le sue operazioni bancarie (la natura delle entrate, la tipologia e le abitudini di spesa, il livello di indebitamento, la capacità di risparmio).

Ragionando in questi termini, l’algoritmo può produrre questo tipo di conclusione: “questa persona negli ultimi tre mesi ha avuto un andamento delle spese per la casa al di sopra della media degli appartenenti al suo gruppo di spesa che è potenzialmente a rischio per restituire un prestito; quindi forse il prestito e’ meglio non darlo” .

In secondo luogo, da non sottovalutare, questo tipo di approccio produce un enorme risparmio di tempo e di energie psico-fisiche per effetto della automazione che azzera processi di lavorazione preistorici che prevedono la compilazione manuale di un questionario che poi viene passato di ufficio in ufficio per essere valutato ed eventualmente approvato e solo dopo una ventina di giorni si fornisce la risposta al richiedente.

Con questo software è possibile effettuare questo stesso identico iter addirittura in pochi minuti anche utilizzando lo smartphone (piuttosto che fare ore di fila presso uno sportello).

Quante banche si sono interessate a questa innovazione?

Ancora poche e di piccole dimensioni.

E questo è il dramma!

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Carcere Santa Maria Capua Vetere: spuntano nuovi video

Dell’“ignobile mattanza” spuntano nuovi video e l’inchiesta della Procura si allarga. Sono i filmati delle telecamere di sorveglianza, che aggiungono materiale al maxi processo che 52 imputati, tra guardie penitenziarie e personale medico, affronteranno a breve.

Nel primo filmato i detenuti stanno seduti sulle sedie accostate al muro, nella stanza definita “aria socialità”. Hanno l’aria calma, in attesa che la perquisizione finisca. Poi si apre la porta in fondo, entrano un paio di agenti di Santa Maria e quattro o cinque di quelli del gruppo di rinforzo in tenuta antisommossa, con caschi, scudi e manganelli. Alla loro vista i detenuti capiscono immediatamente cosa sta per succedere, si alzano dalle sedie e cercano riparo arretrando fino al lato opposto della stanza, rimanendo di fatto imprigionati in un angolo, dove iniziano a prendere manganellate. Un recluso prova a ribellarsi, non a reagire: solo a ribellarsi, e viene perciò punito, con tanta forza che un poliziotto, solo uno, sembra opporsi: Più volte si frappone tra i colleghi e i detenuti, più volte ferma il braccio di chi sta abbattendo l’ennesimo colpo. 

Un altro video mostra un detenuto che sviene, rimane a terra e viene soccorso con assoluta calma da agenti e medici. Se ne vede anche un altro: gettato a terra sulle scale, rialzato a forza, e colpito. Ancora.

Altro video, ancora la sala della socialità. Tre detenuti fermi al centro, con le mani alzate. Per uscire devono passare in mezzo a un gruppo di agenti fermi davanti alla porta. Provano, ma prima di arrivare nel corridoio, ognuno non può evitare pugni, schiaffi e calci. Venti contro uno nel corridoio delle celle e tre contro uno nel vano scala.

Le immagini risalgono al 6 aprile 2020, quando ci furono le “perquisizioni straordinarie” dopo la protesta: una punizione perché il giorno prima c’era stata una protesta perché mancavano le mascherine e tra i detenuti si era creato il timore che ci fosse un positivo in cella.

Come si evince dalla video-inchiesta pubblicata da Repubblica, gli agenti irrompono all’improvviso mentre i detenuti stanno giocando a biliardino: muniti di caschi, manganelli e scudi, ordinano ai reclusi di mettersi “tutti faccia al muro”, poi iniziano il pestaggio. Durante il pestaggio un agente addirittura si serve (anche) delle stampelle di uno dei detenuti per picchiarne un altro. Infine, tentano di rimettere in ordine la stanza.

Un altro video ancora mostra gli agenti compiaciuti dopo avere picchiato i detenuti del reparto Nilo: battono i manganelli sugli scudi come gesto trionfale.

https://video.corriere.it/cronaca/pestaggi-carcere-santa-maria-capua-vetere-nuovi-video2/84ef22a2-df3b-11eb-a9e5-b60d2f6601bd

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