R: E’ un ragazzone di cinquant’anni che, da sempre, ha una grande passione per la scrittura, la buona cucina, il lavoro nel campo delle comunicazioni, l’esplorazione culturale. Da bambino mi capitava di andare con i miei genitori in un cimitero, guardavo mamma e papà con aria stranita perché mi sembrava così chiaro che nelle tombe non ci fosse nessuno, che l’anima era da un’altra parte e non capivo come loro potessero piangere davanti a delle lastre di marmo. Guardavo le tombe e pensavo: “E’ ovvio che da qui l’anima non c’è mai passata, esce dal corpo ed entra direttamente in un altro… è così chiaro!” Era come aver dentro di me le prove scientifiche dell’esistenza della reincarnazione. Lampante, ma allo stesso tempo non ebbi mai il coraggio di parlare di questa cosa con nessuno. Ci pensavo spesso, mi chiedevo chi fossi stato nelle vite precedenti. Da allora non ho mai smesso di pormi domande, e di leggere libri su argomenti spirituali.
D: Mini storia – ma non dire proprio tutto – se vediamo interesse del pubblico allora approfondiremo e se vuoi anche nel discorso familiare… tua madre.
R: Molti anni fa il mio veicolo preferito era la radio ma già utilizzavo anche internet, blog, forum, gruppi di discussione in cui sono venuto a contatto con diverse realtà. Il “Villaggio di Luce”, per esempio, e’ stato un’esperienza interessante in cui abbiamo approfittato del momento dei gruppi Yahoo! per raccogliere sognatori e ricercatori spirituali, scambiare esperienze e idee su un percorso che è stato utile a molti. Ho trovato anche importanti ispirazioni, imparato molto sulle tecniche antiche e moderne di catarsi psicologica e spirituale tramite il teatro, la letteratura. L’attuale Associazione è la naturale evoluzione del Villaggio, con il nuovo progetto “Sole e Luna” e’ nata l’idea di lavorare su me stesso in un modo nuovo, creativo, proiettando una mia “personalità letteraria” che fosse libera dalle limitazioni quotidiane, una specie di “doppelganger” che viaggiasse intrepido nei territori del sogno, delle possibilità e ne riportasse tesori preziosi anche per la mia evoluzione nel mondo interiore reale. La protagonista dei miei romanzi, Stefania (pubblicato con Monetti Editore) era in condizione di fare qualunque cosa io avessi mai desiderato o sognato, aiutandomi a focalizzare e visualizzare.
Ormai lei è parte integrante della mia vita, è la mia migliore amica. Mi ha insegnato a scrivere, a esprimermi in modo creativo, è stato un regalo di valore inestimabile. La mamma di Stefania costituisce la rappresentazione dell’archetipo “madre” della mia vita interiore. Mia mamma è Helga Schneider e le sue opere sono tradotte in tutto il mondo ma non c’è rapporto fra noi, viviamo a tre isolati e abbiamo conflitti irrisolti da quando me ne sono andato di casa, circa quando avevo vent’anni. Un giorno su di un apparecchio radiofonico m’imbattei in una Radio Krishna Centrale appena sbarcata a Bologna: una certa Parama Karuna stava dando delle ricette di cucina. Io ero completamente affascinato dai discorsi strani di questa mistica radio che parlava di un certo Krishna e che dava ricette vegetariane, rispondeva a telefonate in diretta e ogni tanto partiva una canzone che diceva “Hare Krishna Hare Krishna Krishna Krishna Hare Hare Hare Rama Hare Rama Rama Rama Hare Hare”. Presi subito il telefono in mano e composi lo 055820161 (ricordo ancora il numero a memoria): rispose Claudio Rocchi, noto cantautore italiano che in quelle vesti si faceva chiamare Krishna Caitanya das, che subito mi arruolò per produrre delle trasmissioni da un, per ora solo virtuale, ‘studio RKC di Bologna’. E così spedii a Firenze una prova di un mio ‘Radio Italia’. Fu approvata e trasmessa, e da lì continuai. Andai anche al tempio di Castel Maggiore, in provincia di Bologna, a una e più ‘feste della domenica’. Poche settimane e già un certo Dayanidhi mi aveva convinto a trasferirmici. Mia madre si ribellò; s’informò in questura se suo figlio potesse vivere in un tempio, le dissero che un maggiorenne aveva ogni diritto di scegliere il proprio domicilio e la religione che più lo convinceva. Facevo ragionamenti che non poteva condividere e sostenevo concetti che trovava estranei, incomprensibili, proiettati in un mondo che lei definiva ‘arcaico’. Cominciarono discussioni, malumori, un abisso sempre più grande, alla fine un’incompatibilità insuperabile. Ma non era ancora finita… Nel 1995 lessi, sul Corriere della Sera, che Helga Schneider aveva scritto un romanzo e che era considerato un caso letterario. C’incontrammo e la rimproverai di aver raccontato la verità su sua madre, membro della Waffen SS e guardiana ad Auschwitz Birkenau, all’Italia intera. Il libro in questione è “il Rogo di Berlino”, ora un long seller. Che tutti sapessero di questa nonna ‘mostro’ mi metteva a disagio. Da un lato questa madre “fuori dai canoni” era molto stimolante. Lei scriveva e io fin da piccolo volevo scrivere. Lei amava fotografare e io la imitavo con una macchina fotografica finta. Lei dipingeva e anch’io volevo dipingere, poi mi limitavo a disegnare e con gli amici del cortile vendevamo le nostre “opere” su un panchetto improvvisato davanti al nostro palazzo. Lei trasmetteva alle radio libere e io andavo con lei a occuparmi della conduzione tecnica. Lei raccoglieva un gruppo di bambini e insieme a me ci portava in una tivù libera per realizzare una trasmissione dal titolo “La tavola verde”, per la quale abbiamo anche ricevuto un premio. Lei da piccolo mi trascinava nelle gallerie d’arte e io mi annoiavo da morire! Ma poi c’è stata la grande ferita, quando lei ha pubblicato il libro che raccontava di sua madre guardiana delle SS mentre io, suo figlio, ne ero totalmente all’oscuro.
D: Radio… e poi scrittore
R: Leggo e scrivo da sempre, da quando ero bambino. E’ una pratica fondamentale per la mia persona. Sono particolarmente legato alla Insostenibile Leggerezza dell’Essere di Milan Kundera perché dimostra come nella vita quello che
scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. C’è però l’arte di trasformare le cose pesanti in leggere. Yin e Yang possono essere tradotti approssimativamente come il lato in ombra (Yin) e il lato soleggiato (Yang) di una collina, con la mia Stefania cerco di imparare dalla vita come passare da una collina all’altra.
Il libro che mi ha affascina piu’ di tutti e’ La profezia di Celestino, di James Redfield. Quando l’ho letto per la prima volta ho subito sentito che parlava di una profonda e urgente verità, di qualcosa che avevo sempre cercato e che volevo esplorare. L’ho riletto un sacco di volte, con una gioia sempre viva e con sempre nuova ispirazione e soddisfazione. Mi piacciono anche i brevi testi poetici, che esprimono sentimenti, sensazioni e riflessioni profonde, come le poesie giapponesi, che sono dei piccoli gioielli. Quello che pero’ leggo di piu’ sono gli articoli di informazione alternativa.
D: Il tuo matrimonio, la tua energia, il tuo futuro… racconta.
R: Se esistesse un “gene dello scrittore” si troverebbe probabilmente nel mio DNA… Mia madre scrive da quando era bambina e lo faceva anche suo padre. Io ho sempre saputo, fin dai primi anni delle elementari, che sarebbe stata la mia strada.
Si tratta di una vera e propria necessità per me: faccio molta fatica a comunicare a voce, anche con le persone che hanno un posto importante nella mia vita. Le cose che voglio dire, ho bisogno di scriverle. Sarà timidezza, sarà il vantaggio di poter riflettere meglio su ciò che si vuole esprimere, sarà la possibilità di ricordare meglio ciò che si è vissuto e percepito. Comunque resta il fatto che scrivere è importante per me come il cibo quotidiano.
Certamente l’esempio di mia madre mi ha ispirato e offerto l’opportunità di osservare da vicino la vita di una scrittrice affermata e le realtà del mondo editoriale, ma preferisco fare da solo le mie scelte, sia per lo stile che per gli argomenti, che per le collaborazioni letterarie. Credo che si tratti di un processo di crescita personale del tutto naturale e desiderabile. Poi l’amore, quello vero, quello che arriva dalle vite precedenti, la persona che da sempre insegui e che t’insegue, Massimiliano, l’uomo con il quale mi sono unito civilmente grazie alle nuovi leggi italiane, naturalmente modificherà la mia scrittura, entrerà nel futuro di Stefania.
D: I tuoi prossimi impegni
R: Un numero crescente di persone si sta rendendo conto del fallimento e dei pericoli imminenti creati dallo sviluppo non-sostenibile a livello globale, dei difetti del sistema economico, sociale, politico, culturale dell’occidente ed è in cerca di un’alternativa fattibile, che risolva i gravi problemi in cui si trova il genere umano.
Siamo all’alba di un nuovo capitolo della storia umana, il vecchio stile di vita si sta esaurendo – nel bene e nel male. Voglio parlare di tutto questo nei miei prossimi romanzi.
D: Perchè un uomo col tuo forte carattere e cultura non ha mai pensato ad una carriera politica?
R: Politica non è un mestiere, è un servizio. Ma nel senso di servire, non di servirsi o circondarsi di servi. (Cit. Marco Travaglio)
(se il player qui sopra non funziona, cerca la puntata nell’archivio)
Trovò la lettera dentro ad una bottiglia, portata dalle onde del mare in una di quelle mattine che amava trascorrere sulla spiaggia, in silenzio, in compagnia dei propri pensieri.
Amava quella tranquillità, che si respirava all’alba, quando ancora il mondo sembrava isolato in una bolla di sapone e i versi dei gabbiani che volavano alti e leggiadri nel cielo giungevano alle sue orecchie, rompendo quel silenzio ovattato. Amava il dolce sciabordare delle onde che lambivano i suoi piedi nudi che passeggiavano sulla sabbia, composta da un infinitesimo numero di granelli dorati.
Il suo sguardo era stato catturato da un oggetto, che si era arenato ai suoi piedi. Si trattava di una bottiglia verde, un tempo contenente birra. La prese in mano e vide con stupore che all’interno c’era un foglietto.
incuriosito, aprì la bottiglia, che era chiusa con un tappo di sughero ed estrasse con molta cautela il foglio ingiallito. Gli bastò una rapida occhiata per capire che si trattava di una lettera.
La carta era gialla e consumata, a causa della sua permanenza in mare aperto, però le parole si leggevano bene, anche se in certi punti erano un poco sbiadite, ma se ne intuiva comunque il significato.
Si sentiva emozionato, come se avesse scoperto un tesoro e ne fosse solo lui a conoscenza.
Fece un respiro profondo ed iniziò a leggere.
“In un limbo, in una sorta di immaginazione e realtà, io ti sogno bellissimo pensiero, ogni istante, ogni maledettissimo singolo attimo del giorno.
Mi accompagni in ogni mio momento della giornata, parte piccola di un tempo infinitamente grande, che si espande e si allunga a suo piacimento fino a non so quando.
Il tuo pensiero ha un posto nella mia anima, nel mio cuore, nel mio cervello; si fa largo, si contrae, si affievolisce con il passare delle ore, magari sostituito dalla routine, dai mille impegni che gravano su di noi come macigni.
Ma ciò che ci rende più leggeri è questo continuo sognare di mondi aperti, di vite parallele disgiunte, dove l’impossibile può diventare possibile, dove gli specchi della tua anima rimandano una tua immagine, sempre uguale di te stessa, ma diversa; di possibilità inesplorate, di avvenimenti sperati e mai vissuti, di fugacità nel raggiungimento di un appagamento solo momentaneo.
Ecco, il tuo pensiero mi riempie, colma quel vuoto esistenziale che si è venuto a creare in me piano piano, in seguito a delusioni, che hanno minato l’equilibrio instabile del mio cuore assopito, ma sempre in cerca di emozioni che lo risveglino.
Ti penso, e non posso fare a meno di pensare che la vita è breve, sono solo attimi che si concatenano tra di loro, a formare una linea parallela, che sai che è destinata a finire.
Non ti conosco, ma sei così importante.
Eppure cosa vuol dire conoscersi?
Sei tu che mi riempi, tu con i tuoi silenzi infiniti, con i tuoi misteri, con la tua vita a me ignota. La mente vaga alla ricerca di qualcosa che possa per un attimo distrarmi da questa vita, sempre uguale, sempre fine a sé stessa.Scrive a te adorabile sconosciuto, al quale arriverà puntuale il mio messaggio e chissà se arriverà.
Io aspetterò la tua risposta con calma, e se questo accadrà, io vivrò fino in fondo quell’attimo unico e irripetibile in cui per la prima volta sentirò di essere in sintonia perfetta con un altro essere umano.”
La lettera finiva così, nessuna firma, niente che potesse anche solo fornire una qualche traccia sulla misteriosa scrittrice. Sembrava la richiesta di aiuto da parte di qualcuno che si sentiva molto solo. Decise che avrebbe risposto, avrebbe anche lui affidato alla sorte la sua missiva, mettendo la sua lettera nella stessa bottiglia da lui ricevuta.
Forse qualcuno avrebbe letto anche la sua e si sarebbe creato così un filo invisibile tra persone mai viste, ma accomunate tutte da un destino comune e forse la sua lettera l’avrebbe letta proprio la sconosciuta. Chissà, tutto era possibile.
Si voltò verso oriente a guardare il sole che stava per sorgere e la consapevolezza che non era soltanto lui a sentirsi solo, ma che anche altre persone vivevano quella condizione, gli dette un momentaneo sollievo. Sperava di riuscire ad incontrare prima o poi la gentile sconosciuta, forse l’avrebbe incontrata proprio lì su quella spiaggia. Il suo sguardo si perse a contemplare l’orizzonte rosa e il suo cuore si gonfiò di speranza.
L’assessore Mezzetti incontra la scrittrice tedesca. Presto un film dal titolo ‘Let me go’, tratto da una sua opera http://goo.gl/6a9gnZ
Un incontro amichevole, e fortemente voluto, quello dell’assessore regionale alla Cultura, Massimo Mezzetti, con la scrittrice tedesca Helga Schneider, nota a livello internazionale per aver raccontato la sua tormentata storia di figlia abbandonata da una madre nazista, sterminatrice nel campo di Auschwitz-Birkenau.
I suoi due long seller “Il rogo di Berlino” e “Lasciami andare, madre” hanno attraversato generazioni di lettori, e sono spesso usati nelle scuole come testi didattici e di approfondimento per conoscere e comprendere gli orrori del nazismo e la storia del ‘900.
Helga Schneider vive da oltre 50 anni a Bologna, scegliendo la lingua italiana e non la tedesca per i suoi romanzi; invitata in tutto il mondo a testimoniare la sua esperienza e il suo impegno nella preservazione della Memoria, la Schneider è molto attiva anche sul territorio proprio con le giovani generazioni, con cui spesso si rapporta e confronta, trasmettendo la sua esperienza di vita, ricevendo anche un riconoscimento ufficiale dell’Anpi.
Forte di questo impegno e appreso dell’imminente uscita del film “Let me go” – importante produzione inglese diretta dalla regista indipendente Polly Steele, che vanta tra l’altro le musiche composte da Philip Selway dei Radiohead – l’assessore Mezzetti ha invitato la scrittrice in viale Aldo Moro, nella sede della Regione, ritenendo doveroso il tributo di un territorio a una delle sue cittadine più autorevoli e impegnate.
“La figura di Helga Schneider- afferma l’assessore alla Cultura Massimo Mezzetti- è importantissima e particolare. Siamo abituati ad ascoltare testimonianze di chi ha vissuto il periodo nazi-fascista come partigiano, invece la sua è collegata a chi è sempre stato l’oggetto delle lotte partigiane. La signora Schneider, con coraggio, ha dato voce a chi, come lei, è stato a sua volta vittima innocente della follia di Hitler e del nazismo”. “Il nostro incontro- continua l’assessore- rafforza l’importanza del lavoro sulla Memoria, che l’Emilia-Romagna ha consolidato con l’approvazione della nuova legge regionale, perché una persona che non sa che cosa ha fatto e da dove viene non sa nemmeno che cosa vuole. E in questa sinergia con associazioni e istituti storici del territorio, la parte relativa alle testimonianze dirette, soprattutto nelle scuole e con gli studenti, sarà molto importante”.
“Anche il popolo tedesco ha sofferto moltissimo durante il periodo nazista- ha riferito la Helga Schneider all’assessore- soprattutto i bambini. Si parla molto poco di questo e io posso testimoniarlo. Trovo molto importante andare nelle scuole a raccontare la mia esperienza, spiegare ai ragazzi, confrontarmi con loro e rispondere alle loro domande”.
Schneider ha raccontato che, isolato dal resto del mondo dal sistema nazista, il popolo tedesco disponeva solo dell’informazione controllata dal regime. “I miei in cantina- ha spiegato durante l’incontro- ascoltavano di nascosto la BBC, rischiando molto, perché era proibito. In questo modo capivamo che quanto Goebbels raccontava erano delle bugie incredibili! Oggi viviamo in un’era tecnologica in cui le informazioni sono disponibili dopo pochi minuti. Tutto ciò è meraviglioso ma anche pericoloso, soprattutto per i più giovani, perché comporta a una forte esposizione a propagande terroristiche”.
Ha raccontato poi la vicenda della madre: “Mi disse di aver fatto un corso di disumanizzazione per poter lavorare dentro i campi di concentramento. Soprattutto le guardiane delle SS dovevano essere in grado di sopportare la vista delle crudeltà. Questo lavaggio del cervello le è rimasto per tutta la vita”.
Cara Helga, buondì!
Prego il Signore che stia bene e si senta spiritualmente ispirata.
Il tema da lei sviluppato, la relazione famigliare, e in particolare quella personale madre-figlia, all’interno di quel tragico contesto storico, crea un sapore certamente particolare. E, sentendo la necessità di dirglielo fin dai primi capitoli letti, colgo l’occasione per farle ora vivi complimenti per il sapiente uso della lingua italiana: un uso così efficace da far invidia a noti scrittori di madre lingua.
Per consentirle di meglio conoscermi, le accenno qualcosa alla relazione tra lo sfondo su cui si stagliano le sue narrazioni e me. La Storia in generale mi ha da sempre appassionato e, per motivi che non ho ancora soddisfacentemente sondato, quella del Terzo Reich: la sua inspiegabile ascesa, la sua conquista del potere, la sua disfatta e i processi che ne son seguiti, in particolare quelli ai gerarchi nazisti celebrati a Norimberga e quello ad Adolf Heichman a Gerusalemme. Però, nonostante le non poche letture e le conversazioni con i rari testimoni storici, con i loro stretti parenti, con esperti di questioni politiche e sociali germaniche ed ebraiche, sento che per capire mi sfugge ancora qualcosa di fondamentale, e inquietante.
Con stima e affetto,
Marco Ferrini (Matsyavatara Das)
PER UN PUGNO DI CIOCCOLATA
Racconto tratto dal libro omonimo di Helga Schneider (Mantova, Oligo Editore, 2019)
Tedesca per nascita, bolognese per scelta, la scrittrice Helga Schneider ha raccontato al mondo la tragedia del nazismo dal suo particolare punto di vista: quello di una figlia lasciata, piccolissima, da una madre che decise di dedicarsi al lavoro di guardiana nei campi di concentramento e di sterminio. Vi proponiamo il racconto che dà il titolo alla sua ultima raccolta, ringraziando per la lettura Donatella Vanghi e l’associazione “Legg’io”.
Risalendo dal cortile Lotte infilò le scale, ma al secondo piano si arrestò vedendo una donna nel vano del suo uscio aperto.
«Scusami ragazzina, potresti darmi una mano?».
Non potendo rifiutare per educazione, Lotte annuì. La signora le fece cenno di entrare.
«Abbiamo fatto trasloco ieri e la casa è ancora in disordine» – si giustificò la donna. – «È successo che mi sono fatta un brutto graffio sul balcone con un chiodo che spuntava da un portafiori difettoso».
Indossava un vestito estivo leggero a manica corta, la ferita era ben visibile, lunga e arrossata.
«Cosa devo fare?» chiese Lotte.
«Nel bagno trovi una cassetta di primo soccorso e…».
La recuperò, pulì la lesione con la tintura di iodio, applicò la garza e un cerottone Hansaplast.
«Non so come ringraziarti,» – disse la signora, sollevata – «Sei bravissima. Quanti anni hai?».
«Tredici».
«Come ti chiami?».
«Lotte. Abito al quarto piano».
«Con i tuoi genitori?».
«Mio padre è al fronte, in Francia. Sto con mia madre e la nonna».
«Io sono Frau Schmitt. Senti, cara, vorrei ripagarti per la tua gentilezza. Posso offrirti una fetta di pane spalmata di vero burro?».
«Bur-ro?» ripeté la ragazza con viva meraviglia.
Da quando c’era la guerra, gli alimenti erano razionati e molte cose non si trovavano più, tra le quali il burro, che era stato sostituito con della pessima margarina.
Frau Schmitt sorrise accondiscendente: «Vieni in cucina».
Fu invitata a sedersi al tavolo e assistette mentre la signora tagliava da una pagnotta una bella fetta e la cospargeva di un generoso strato di burro. A Lotte venne l’acquolina in bocca solo a guardarla! Quando alla fine ebbe quella meraviglia tra le mani, la morsicò con più avidità di quanto avrebbe voluto manifestare.
Finito tutto ringraziò con molta enfasi e dichiarò che a quel punto sarebbe dovuta salire in casa.
Frau Schmitt la ringraziò di nuovo: «Sei una ragazza preziosa».
Lotte sorrise imbarazzata, nessuno l’aveva mai definita preziosa, e guadagnò la porta.
Il giorno seguente era assolato e faceva caldo.
I ragazzi del condominio, che si stavano godendo le ferie scolastiche, si divertivano nel cortile nonostante fosse un luogo inospitale, senza nemmeno un albero e circondato da muretti con mattoni a vista anneriti dal tempo e dall’indifferenza.
Rientrando all’ora di pranzo, Lotte si arrestò un’altra volta al secondo piano vedendo Frau Schmitt nel vano della sua porta.
«Scusami, cara, avrei un piccolo problema, potresti aiutarmi?».
«Sì».
«Entra, prego».
Una volta in casa, Frau Schmitt disse: «Mi devi perdonare se approfitto ancora una volta della tua gentilezza, ma Lilli è scappata dalla gabbia. È il mio pappagallino. Si è rifugiata nel bagno. Sai, la ferita al braccio mi duole ancora molto e non riesco a…».
«Ci penso io» le disse Lotte.
Sapeva ormai dove si trovava il bagno e andò a verificare.
L’uccellino stava sulla sponda della vasca e si lasciò prendere con facilità. Frau Schmitt, sollevata, lo rimise nella gabbia.
«Cattiva Lilli,» – rimproverò la bestiolina – «non farlo più!».
E a Lotte: «Sei proprio una ragazzina in gamba!».
«Grazie, ma ora devo andare, non voglio preoccupare la nonna».
«Non avevi detto che abitavi con la nonna e tua madre?».
«Sì, ma durante il giorno mamma lavora».
«Capisco. Che mestiere fa?».
«L’infermiera. In una clinica».
«Bene bene. Con il paese in guerra questa è un’attività importante».
Lotte annuì, ammirando il vestito della signora, diverso da quello del giorno precedente: era tutto di colori chiari, così come chiari, del resto, erano i suoi capelli, gli occhi e la pelle luminosa.
Lotte non se ne intendeva molto, ma in quel momento pensò che fosse una signora piuttosto bella.
Mentre si dirigeva verso la porta, arrivò la domanda: «Gradiresti un’altra fetta di pane con il mio buon burro, cara?».
«No, grazie» rispose Lotte d’impulso, ma aveva già l’acquolina in bocca.
L’altra la esortò, spiccia: «Vieni in cucina».
La ragazza la seguì come stregata da un invisibile flauto magico, poi scivolò sulla sedia mentre Frau Schmitt tagliava del pane, lo spalmava di burro e aggiungeva anche una fetta di prosciutto.
Lotte strabuzzò gli occhi e, quando ebbe in mano quella meraviglia dello Schinkenbrot, quasi temette di svenire. L’odore era così travolgente che per qualche istante le girò la testa.
Mentre si godeva il panino, la signora spiegò: «Mio marito lavora al Ministero dell’Alimentazione e Agricoltura, e capita che accetti dei doni dai contadini come ringraziamento per aver concesso loro favori o altri benefici. È per questo che posso offrirti il pane col burro e il prosciutto. Ma non dirlo in giro, è una cosa che ho confidata solo a te. Me lo prometti?».
«Sì… ma ora devo andare perché…».
«Certo, vai, vai! Solo un’ultima cosa: per caso sai quanti anni ha il figlio della portiera?».
«Toni? Credo diciotto, anzi, diciannove».
«Strano» – si stupì Frau Schmitt – «che non sia stato richiamato alle armi».
La ragazza fece spallucce, ringraziò più volte dello Schinkenbrot e raggiunse rapidamente la porta.
Lotte rivide la signora nel rifugio del palazzo, quando gli inglesi sferrarono il primo vero attacco aereo sulla città. Sui giornali fu poi spiegato che si era trattato di un atto di vendetta perché la Germania aveva cominciato a bombardare Londra.
L’evento scioccò la popolazione: il ministro Göring aveva solennemente promesso che mai nessuna bomba sarebbe caduta su Berlino; ora tutti si sentivano delusi e traditi.
Nel rifugio gli inquilini notarono l’assenza del figlio della portiera. La donna raccontò, piangendo, che a sorpresa Toni era stato chiamato alle armi malgrado soffrisse di una grave forma di asma che a volte lo lasciava totalmente senza respiro.
A poco a poco le anime dei cittadini si chetarono e i ragazzi del condominio ripresero a sfogarsi nel cortile.
Verso l’ora di pranzo qualcuno decise di risalire in casa, e all’imbocco delle scale incontrarono Frau Schmitt. Lotte si fermò per educazione, gli altri proseguirono.
«Ecco la mia piccola salvatrice!» – esclamò la donna, enfatica – «Come stai, mia cara?».
«Bene».
Cominciarono a salire insieme i gradini. Giunte davanti alla sua porta, la signora dichiarò, diventata a un tratto seria: «Dovrei chiederti una cosa, Lotte, vorresti entrare un momento?».
Quel tono quasi severo impensierì la ragazza, così annuì.
Nel vano d’ingresso Frau Schmitt pose la borsetta e le chiavi su una mensola e si diresse senza indugio verso la cucina, invitando Lotte a seguirla.
L’appartamento ora era più in ordine, Lilli gorgheggiava gioiosa.
«Accomodati, prego». Di nuovo sulla solita sedia al solito tavolo.
«È successo che mio marito si è molto arrabbiato», esordì la signora in tono grave.
«Perché?».
«Domenica pomeriggio, dopo pranzo, lui ama fare un sonnellino in camera, ma questa volta non è riuscito a chiudere occhio perché voi nel cortile facevate un baccano infernale!».
«Mi dispiace» disse Lotte, mortificata.
«Adesso tu mi devi promettere che questo incidente non si ripeterà mai più!» – si raccomandò la donna, agitando l’indice – «Mio marito è una persona molto influente e non vorrei che prendesse certi provvedimenti nei confronti delle vostre famiglie».
Lotte si sentii sgradevolmente colpita da quel tono, che le suonava come una minaccia, ma si controllò.
«Parlerò con i miei amici» – assicurò – «Vedrà che la domenica pomeriggio suo marito riuscirà a riposare».
«Brava» fece Frau Schmitt.
Mentre Lotte si alzava arrivò la fatidica domanda: «Vuoi che ti prepari un altro Schinkenbrot?».
«No, no grazie!» rispose decisa la ragazza, ma la signora la esortò: «Siediti! Non fare la modesta!».
Lotte obbedì, ma con un senso di crescente disagio.
Frau Schmitt tagliò una bella fetta, la spalmò con molto burro e le aggiunse un trancio di prosciutto, questa volta più spesso di quello precedente.
A poco a poco Lotte sentì svanire le resistenze, ogni fibra del suo essere desiderava quello Schinkenbrot! Alla fine, divorandolo, sembrò che ne godesse tutto il suo corpo dalla radice dei capelli alla pianta dei piedi. Un godimento perfetto.
Mandato giù l’ultimo boccone fu come se si riavesse da un incanto.
Balzò in piedi. Aveva la percezione di aver tradito qualcosa o qualcuno, una promessa, un principio – sé stessa! Avrebbe dovuto rifiutare quello Schinkenbrot, dimostrare forza e carattere, e invece aveva ceduto. Se ne andò rattristata, dandosi della vigliacca.
Nella notte del 29 agosto 1940 ci fu un secondo attacco aereo che colpì il Görlitzer Bahnhof e i centri abitati circostanti. Morirono dodici persone e ventotto rimasero ferite.
Gli inquilini del palazzo scesero di nuovo nel rifugio, tra di loro anche Frau Schmitt e il marito. L’uomo, un po’ panciuto, con un’incipiente calvizie e lo sguardo acuto, rivolse un paio di frasi a Lotte. Elogiò gentilmente la disponibilità dimostrata più volte nei confronti di sua moglie. La quale invece lottava con la curiosità di sapere per quale motivo Lotte si trovasse in cantina solo con la madre, senza la nonna, ma, temendo di destare sospetti nella ragazza, tacque.
Due giorni dopo, Lotte incontrò il signor Schmitt nei pressi del portone. Lo salutò cortesemente e fece per proseguire, ma l’uomo la trattenne. La informò che sua moglie era malata a letto. Aveva la tosse e la febbre. Lui purtroppo era costretto a rimanere per il resto della giornata in ufficio, dovendo risolvere una grana politica molto incresciosa.
Lotte intuì il suggerimento e promise che nel pomeriggio avrebbe fatto un salto dalla signora per chiedere se avesse bisogno di qualcosa. Lui la ringraziò con belle parole, poi Lotte raggiunse gli amici nel cortile.
Risalendo all’ora di pranzo si fermò al secondo piano e suonò.
Dopo un po’ la signora aprì. Indossava una vestaglia verde pisello con il collo e le tasche ricamate.
«Che cara ragazza! » – esclamò, tossicchiando un poco – «Entra, prego! È stato mio marito a dirti che sono malata, non è vero? Pover’uomo, ha sempre paura che per due linee di febbre io sia in punto di morte». Prendendola per un braccio, la costrinse a seguirla in cucina.
«Siediti un momento, Lotte».
La ragazza esitò: «Volevo solo sapere se avesse bisogno di qualcosa».
«Su! Due minuti!».
Non aveva un gran aspetto da malata, la signora. I capelli erano in ordine e, come le altre volte, si era data un tocco di rossetto.
«Stamattina è venuto il dottore.» – raccontò – «Mi ha lasciato le medicine e mio marito è andato a fare un po’ di spesa. Per il resto devo stare a riposo».
«Sono contenta che non abbia bisogno di niente» disse Lotte, e si alzò in piedi, ma l’altra la respinse con gentile decisione sulla sedia.
«Uno Schinkenbrot?» gettò l’esca.
«No, no, davvero, grazie!» declinò Lotte, risoluta. Aveva avuto problemi a casa perché in seguito ai panini di Frau Schmitt era sembrato che non avesse affatto fame. Molto strano in tempi di penuria di alimentari. La nonna sospettava perfino che si fosse presa una malattia.
Ma sembrava ormai un rito prestabilito: il pane, uno strato generoso di burro e il prosciutto.
Lotte si sentiva quasi male per lo sforzo di rinunciare al panino, e infatti quando Frau Schmitt glielo porse non resistette e lo prese. “È l’ultima volta” – si disse – “lo giuro”, ma nello stesso tempo affondò i denti in quella meraviglia di cibo.
Dopo averlo divorato fu come se avesse un crollo di morale, una voce interna le disse, accorata: “Ora vattene di corsa! Non tornare mai più!”.
«Ho un regalo per te!» dichiarò la signora.
Lotte scosse la testa: «No, davvero, non voglio nessun…».
«Oh, quante storie!».
Frau Schmitt si avvicinò a un mobile-credenza, aprì un cassetto, estrasse una scatola piatta, rettangolare e gliela porse davanti sul piano del tavolo.
«Aprila, coraggio!».
Lotte sospirò, avvertiva un senso di fiacchezza, di impotenza.
Tolse il coperchio e fissò il contenuto: erano cioccolatini.
«Mio marito ha ancora le sue fonti» disse la donna con una risatina di complicità.
Cioccolatini… Lotte conservava una lontana memoria di quella dolce prelibatezza, un ricordo che risaliva a un periodo in cui il nazismo non era ancora al potere.
«Prendine uno» la donna la esortò.
Con un movimento lento quasi fosse in trance, la ragazza tolse la carta stagnola dal primo. Che delizia, che fantastico godimento mentre la cioccolata si scioglieva in bocca!
«Su, un altro» sollecitò Frau Schmitt. Alla fine Lotte ne mangiò sei. Non si accorse tuttavia che alcuni di essi avevano un ripieno di liquore.
Fu presa da una strana euforia ed esclamò, entusiasta: «Voglio portarne due al nonno, lui da giovane lavorava in una fabbrica di cioccolata e ancora sogna le praline che producevano!».
Negli occhi di Frau Schmitt avvampò una luce acuta: «Non avevi detto che abitavi con tua madre e la nonna?».
Lotte accusò un violento colpo al cuore, era arrossita.
«Intend… volevo dire… intendevo dire la nonna…» balbettò, atterrita.
Ci fu una pausa. Dal soggiorno giungevano gli spensierati gorgheggi di Lilli.
«Così era la nonna che da giovane lavorava in una fabbrica di cioccolata?», domandò infine Frau Schmitt, ma nella sua voce c’era un tono nuovo, ambiguo.
«Sì, sì, era la nonna!» Lotte si affrettò ad aggiustare il tiro.
«Allora portale un po’ di cioccolatini» suggerì Frau Schmitt.
Lotte si alzò: «No, non vorrei approfittare della sua…».
La donna ne prese un pugno e li mise nelle mani della ragazza: «Fai troppe storie! Ma ora vai, io sono stanca. Sono malata, è meglio che torni a letto».
La accompagnò sbrigativamente alla porta.
Si sentiva come gelata dentro, le tremavano le ginocchia. Aveva nominato il nonno che tenevano nascosto in casa! Che cosa aveva fatto… Mise i cioccolatini in una delle tasche del suo vestito e scivolò su un gradino. Prese la testa fra le mani: “Dio fa che la signora non si sia insospettita. Ti prego!”.
Lotte era una ragazza intelligente e la mamma, Frau Grete Klugge, le aveva spiegato, con tutte le cautele del caso, per quale motivo una notte era arrivato il nonno e da allora non si era più mosso dall’appartamento. Era stata minuziosamente istruita a mantenere il segreto con tutti e a ogni costo.
Il nonno lavorava in una fabbrica di munizioni quando gli era scoppiato un ordigno in mano. Ricoverato in una struttura statale, al pover’uomo fu amputato il braccio sinistro fino al gomito e inoltre due dita della mano destra. Il medico responsabile della struttura, Herr Pfalz, era per caso un parente del nonno.
Un giorno arrivò dall’Ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale, a tutti gli ospedali, cliniche e case di cura, l’ordine di fornire un questionario sulle patologie dei ricoverati, ufficialmente per verificarne le capacità lavorative.
La novità era dovuta al volere di Adolf Hitler: «Tutte le vite indegne di vivere dovevano essere eliminate per mano dello Stato». Ovvero, dovevano essere soppressi quei cittadini che non potevano più essere utili al Reich, gravando sulle spese della sanità pubblica. L’operazione si chiamava Aktion T4. T4 stava per Tiergartenstrasse 4. La villa era stata espropriata a un ebreo, perché all’epoca essi non potevano possedere case né tanto meno ville. Tiergartenstrasse 4 divenne il quartier generale dell’Aktion T4.
Il dottor Pfalz apprese che, una volta compilati, i famigerati questionari sarebbero stati esaminati da certi periti, e alla fine un supervisore avrebbe decretato la vita o la morte dei pazienti, senza nemmeno averli visitati. Stabilito chi non meritava di vivere, il giorno concordato gli uomini di una fantomatica Società di Pubblica Utilità per il Trasporto degli Ammalati avrebbero caricato i pazienti condannati su pullman dai finestrini oscurati, diretti nei centri di eliminazione, o meglio: nelle cliniche della morte, dove le vittime venivano uccise in camere a gas camuffate da docce.
Il dottor Pfalz si rese conto che la vita del suo parente era in pericolo, e prese una decisione. Malgrado il paziente fosse stato operato da poco, firmò la lettera di dimissioni e avvertì la figlia, Frau Grete, di venire a prendere il padre.
La donna lo sistemò durante il giorno presso un’amica fidata, e lo condusse a casa solo a notte fonda. A quell’ora non incontrarono nessuno sulle scale e il nonno arrivò nell’appartamento senza che nessuno lo avesse visto. Essendo infermiera diplomata, da quel momento fu la figlia a occuparsi del convalescente, che soffriva ancora per i postumi di un intervento dalle caratteristiche molto invasive.
Verso l’alba sentirono suonare alla porta. La prima ad alzarsi, spaventatissima, fu la nonna, ma poiché continuavano a suonare, anche il resto della famiglia balzò in piedi.
Poi una voce rude e minacciosa intimò: «Polizia! Se non aprite entro due minuti sfondiamo la porta!».
Solo negli anni ’60 Lotte ne parlò per la prima volta con i suoi gemelli: «Era stata quella spia della signora Schmitt a segnalare alla polizia il sospetto che nascondessimo a casa un clandestino».
In qualche modo fu anche scoperto che il dottor Pfalz aveva sottratto al questionario un parente, che sarebbe stato un sicuro candidato dell’Aktion T4, per cui si era reso responsabile di sabotaggio nei confronti di una disposizione governativa.
«Mia madre e la nonna furono arrestate, io finii in un istituto per minori soli senza famiglia.» – Lotte spiegò ai figli – «La povera nonna si ammalò in prigione e morì, la mamma fu rilasciata dopo la fine della guerra, ma sopravvisse solo per due anni. Ebbi modo di starle vicino fino all’ultimo giorno».
«E… il nonno?», domandò Egon, uno dei gemelli, con una luce ansiosa negli occhi.
«Fu… ucciso in una delle cliniche della morte del Terzo Reich» rispose, poi la voce le venne meno.
I gemelli la abbracciarono.
«Non piangere, mamma… adesso sono tutti in cielo. Non piangere mamma…».
Cammina con la madre Helga Schneider, scrittrice nota a livello internazionale. Intorno a loro il Giardino del Museo geologico “Sandra Forni”. “C’è un’ombra fra noi…” dice Renzo Samaritani, “non possiamo e forse non dobbiamo dimenticarla.” Una video-intervista parla di questa “ombra” su YouTube “Perdono mia madre Helga Schneider e i suoi silenzi sulle SS” realizzata da Loescher Editore. Ora anche la Regione Emilia-Romagna punta le proprie telecamere su lui e Helga, tutti i figli o nipoti di genitori o nonni che sono stati implicati nel nazismo o nell’olocausto, hanno avuto problemi di ordine sociale, familiare o psicologico. Questo è il senso del film ‘Let me go’, tratto da un’opera della Schneider e presto al cinema.
Renzo ha avuto problemi dopo aver letto “Il rogo di Berlino” e comunque a causa della nonna austriaca, complice ad Auschwitz dell’olocausto. Di questo è di un altro long seller di Helga Schneider, entrambi pubblicati da Adelphi, si è discusso la scorsa settimana con l’Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, durante un incontro amichevole e da lui fortemente voluto.
“La figura di Helga Schneider- afferma l’assessore alla Cultura Massimo Mezzetti- è importantissima e particolare. Siamo abituati ad ascoltare testimonianze di chi ha vissuto il periodo nazi-fascista come partigiano, invece la sua è collegata a chi è sempre stato l’oggetto delle lotte partigiane. La signora Schneider, con coraggio, ha dato voce a chi, come lei, è stato a sua volta vittima innocente della follia di Hitler e del nazismo”. “Il nostro incontro- continua l’assessore- rafforza l’importanza del lavoro sulla Memoria, che l’Emilia-Romagna ha consolidato con l’approvazione della nuova legge regionale, perché una persona che non sa che cosa ha fatto e da dove viene non sa nemmeno che cosa vuole. E in questa sinergia con associazioni e istituti storici del territorio, la parte relativa alle testimonianze dirette, soprattutto nelle scuole e con gli studenti, sarà molto importante”.
“Anche il popolo tedesco ha sofferto moltissimo durante il periodo nazista- ha riferito la Helga Schneider all’assessore- soprattutto i bambini. Si parla molto poco di questo e io posso testimoniarlo. Trovo molto importante andare nelle scuole a raccontare la mia esperienza, spiegare ai ragazzi, confrontarmi con loro e rispondere alle loro domande”.
Helga Schneider vive da oltre 50 anni a Bologna, scegliendo la lingua italiana e non la tedesca per i suoi romanzi; invitata in tutto il mondo a testimoniare la sua esperienza e il suo impegno nella preservazione della Memoria, la Schneider è molto attiva anche sul territorio proprio con le giovani generazioni, con cui spesso si rapporta e confronta, trasmettendo la sua esperienza di vita, ricevendo anche un riconoscimento ufficiale dell’Anpi.
Forte di questo impegno e appreso dell’imminente uscita del film “Let me go” – importante produzione inglese diretta dalla regista indipendente Polly Steele, che vanta tra l’altro le musiche composte da Philip Selway dei Radiohead – l’assessore Mezzetti ha invitato la scrittrice in viale Aldo Moro, nella sede della Regione, ritenendo doveroso il tributo di un territorio a una delle sue cittadine più autorevoli e impegnate.
Helga Schneider sta attualmente lavorando a nuovi progetti editoriali, di cui uno dedicato agli adolescenti.
Sono angeli in carne ed ossa che spendono la loro vita per proteggere e salvare gli animali più bisognosi. Cittadini comuni dalla straordinaria sensibilità che si prodigano per aiutare i quattro zampe abbandonati, spesso scacciati in malo modo quando non maltrattati, che soprattutto nelle regioni meridionali della nostra Penisola – ma non solo – vagano senza meta cercando di sopravvivere.
Che siano volontari afferenti a grandi o piccole associazioni o, semplicemente, persone senza alcun consorzio di riferimento, sono accomunati dal medesimo obiettivo: riscattare cani e gatti meno fortunati per dare loro un’esistenza degna di essere chiamata tale. Cittadini mossi da inesauribile dedizione che, quotidianamente, investono tempo e denaro per cercare di lacerare quel velo di indifferenza che spesso ammanta randagi così come quattro zampe abbandonati.
È il caso, ad esempio di una dottoressa. Nella calda ed assolata Sicilia un bel giorno incontra per caso un cucciolo, vicino al suo ingresso di casa, amore a prima vista.
Lo accoglie con tanto amore. Dopo poco tempo incontra per caso un’altro bellissimo tenero cucciolo, La nostra carissima Dottoressa dal cuore nobile, accoglie anche lui in casa, andando contro la volonta dei genitori, non per cattiveria, ma sapendo il tipo di lavoro che fa la nostra grande Dottoressa che la costringe di essere fuori casa e lasciandoli soli per diverse ore, ma la nostra dottoressa e stata in grado di allevarli con tanto amore e serietà, che oggi come oggi questi cuccioli sono adulti, il cucciolo nero si chiama Lucky e il marrone Clover, rispettano il loro ambiente e la casa, rimangono per diverse ore in solitudine, fino oggi non si sono mai permessi di fare dipetti alla lora padroncina, anzi, amano la loro padrona che sono super prottetivi nei suoi confronti, guai chi si permette ad discutere con la loro padrona. Lucky e Clover Addestrati con amore, neanche si permettono di mangiare se la loro padrona non gli da l’ok al pasto, possono stare a digiuno per ore ma non si permettono di mangiare senza la presenza della padrona di casa, soltanto con amore verso a questi meravigliosi cani e unici sinceri amici dell’essere umano si può arrivare a questi livelli di amore verso chi ti porge cibo e amore.
sono solo alcuni dei cani salvati da queste sensibili persone che attendono ancora di essere scelti come compagni di vita da qualcuno. Randagismo e l’indifferenza Fino a quando il rispetto per i quattro zampe non sarà un valore unanimemente condiviso e assodato, la cattiveria umana che spesso sfoga i propri istinti più bassi nei confronti dei più deboli, quattro zampe compresi.
Se in paesi come la Spagna, lo abbiamo già raccontato, il randagismo viene liquidato con l’uccisione di massa degli animali, anche nella nostra penisola – soprattutto in alcune zone di essa – gli animali non hanno sorte molto migliore. Esistono, ancora oggi, canili in cui è vietato l’ingresso ai volontari dove i cani si sbranano tra loro. Luoghi in cui, in pochi metri quadrati, coesistono numerosi Fido che per sopravvivere fanno valere la legge del più forte. Realtà in cui non hanno mai la possibilità di posare le zampe sul prato e sentire l’erba pungere. A quelli che rimangono a vagare sul territorio non va sempre meglio. Se, infatti, non sono sfamati ed accuditi da volontari o comunità sensibili ai loro bisogni, finiscono spesso per essere bersagli di persone senza cuore che sfogano su di loro le più abiette pulsioni. Angelo, il cagnolino ucciso quasi per passatempo a Sangineto è diventato – suo malgrado – il simbolo di tale malvagità nei confronti degli animali. Dopo di lui, tante altre storie altrettanto tragiche sono state riportate dalle cronache suscitando sdegno e rabbia nell’opinione pubblica. Per mettere per sempre la parola fine ad epiloghi tragici come questi, è necessario – lo ribadiamo – un cambiamento culturale che venga sostenuto, in primis, dalle istituzioni non solo attraverso l’applicazione delle leggi a tutela degli animali ma anche sensibilizzando gli individui, a partire dall’età scolare, al rispetto verso gli altri esseri viventi, quattro zampe compresi.
Oggi ho incontrato Gerda Kleinprunkbad per il consueto aperitivo settimanale. E’ arrivata puntualissima con il fedele Poldo che, come ho giù raccontato nella puntata precedente, non ci ha lasciati parlare fino a quando non gli ho preso una crescentina al formaggio. Particolare del tutto trascurabile: ce la siamo divisa per motivi di dieta. A quel punto (solito punto, mi verrebbe a dire), abbiamo potuto conversare tranquillamente. No, mi correggo: abbastanza tranquillamente, perché Poldo ci ha interrotto due volte. La prima, perché un gruppo di giapponesi, ognuno munito di macchina fotografica, si era permesso di passare davanti al bar! La seconda perché Frau Kleinprunkbad ha fatto una battuta del genere: “I cinesi o i giapponesi o tutti e due mangiano i cani.” Poldo ha fatto un saltello in aria e, con gli occhi fuori dalle orbite, ha abbaiato mostrando i denti. Sembrava che avesse capito l’allusione della padrona!
Questa volta Frau Kleinprunkbad mi ha raccontato il suo incontro (si fa per dire), con la Principessa Sirikit.
All’epoca aveva vent’anni e poco dopo sarebbe diventata hostess di volo. Si trovava a Londra per perfezionare il suo inglese e aveva un lavoretto part-time per mantenersi.
Una sera si soffermò in una via del centro attratta dai profumi che uscivano da un ristorante cinese. Studiò il menù esposto all’esterno, ma i prezzi erano proibitivi. Stette per girare i tacchi, poi la fame ebbe il sopravvento e decise di entrare e ordinare solo un po’ di riso accompagnato da un bicchiere di vino. Le sue finanze erano allora molto scarse.
Quindi entrò cercando di darsi un tono. Fu accolta da una gentile cinesina che parlava un inglese perfetto. Ordinò il riso alla Cantonese e un bicchiere di vino bianco. La cameriera, a giudicare dall’atteggiamento insicuro, doveva essere fresca di assunzione perché ancora non sapeva tutte le cose…
Arrivò il riso alla Cantonese e Gerda cominciò a mangiare avidamente, ma poco dopo si presentò al suo tavolo la cinesina di poc’anzi ricordandole che a Londra a quell’ora era vietato servire alcolici. Se invece volesse assaggiare il Sake?
Ma Gerda era abituata a cenare col vino, non con il Sake! E con l’irruenza dei suoi vent’anni dichiarò che il solo nome Sake le aveva fatto venire la nausea e che doveva uscire per prendere una boccata d’aria. In realtà era intenzionata di andarsene per i fatti suoi senza pagare. Cameriera e cinesina la guardarono incredule.
Fuori scorse una quantità di gente, cosa stava succedendo?
Accadde che da un vicino Hotel di lusso stava uscendo la Principessa Sirikit Kitiyakara della Thailandia, in quei giorni in visita ufficiale a Londra. Era circondata da un enorme corteo e tutti quanti si mossero in direzione del ristorante.
La Principessa era bellissima, come l’apparizione di un sogno. Con aria regale volse lo sguardo un po’ a destra e un po’ a sinistra, ma sembrò che in realtà non vedesse nessuno. D’un tratto però la sua attenzione si concentrò sul vestito di Gerda che era di un giallo fiammante e… le sorrise!
“Mi sorrise, davvero!”, ha insistito Frau Kleinprunkbad. “E quando il corteo fu passato, la cinesina del locale, forse impressionata del fatto che la Principessa aveva sorriso solo a me, mi invitò a rientrare nel ristorante per offrirmi in dono un secondo piatto di riso accompagnato da un bel bicchiere di vino bianco mascherato da bibita!”
Ho lanciato a Gerda uno sguardo scherzosamente interrogatorio: “Le ha sorriso davvero?”
Con la scusa che Poldo aveva ricominciato ad abbaiare perché i giapponesi di prima erano tornati e stavano passando di nuovo davanti al bar, rispose con aria sognante: “E chi lo sa…”
Il razzismo è una problema di cui ancora al giorno d’oggi si discute, in quanto sempre di più veniamo a contatto con chi è definito “diverso”. Le nostre città, paesi e nazioni si stanno riempiendo di persone provenienti da tutto il mondo: africani, asiatici, cinesi, ecc., che a volte svolgono i lavori più umili e vengono sfruttati e considerati come essere inferiori. La convivenza a volte diventa un problema, in quanto si hanno diversi modi di pensare, mangiare e pregare. Infatti anche la religione diventa un fattore discriminate nelle società, chi è cristiano non tollera il musulmano e viceversa. Riflettendo su questo problema penso che, per noi ragazzi forse è più semplice far integrare quelli “diversi” da noi, in quanto non guardiamo tanto il colore della pelle o il diverso modo di mangiare e di vivere.
Nella mia classe abbiamo un compagno pakistano, uno marocchino e uno cinese, che sono stati accolti in maniera tranquilla. Così dovrebbero fare i grandi, in quanto siamo tutti uguali, abbiamo due occhi, due braccia, due gambe, semplicemente alcune caratteristiche fisiche sono diverse, ma è allo stesso modo come noi italiani non abbiamo uguali il colore degli occhi, o uno è più alto e l’altro è più basso. L’importante è il comportarsi bene con tutti e rispettare tutti, nella vita di ogni giorno. Nessun essere è inferiore e se crediamo in un Dio che sia Gesù, Allah o Budda, tutti e tre dicevano che l’amore è alla base di ogni cosa, quell’amore verso tutti e che ci rende uguali davanti a Dio e al mondo, senza nessuna differenza.
Io direi che gli adulti dovrebbero pensare a queste cose, cercare di guardare gli altri non come diversi da noi, ma capire le diversità e perché si comportano in una determinata maniera. Noi ragazzi infatti siamo sempre curiosi e chiediamo molto ai nostri compagni sulla loro vita, come mangiano, che giochi fanno, come pregano e spesso non sono così diversi, infatti hanno la stessa voglia di giocare. La differenza forse è che loro hanno vissuto tante esperienze e si devono adattare ai luoghi in cui vivono, in questo sono più forti di noi, che ci lamentiamo sempre di quello che non abbiamo. Se vedo l’immagine di un mondo futuro costruito sulla tolleranza e sulla volontà di cooperazione? Io la vorrei davvero vedere questa immagine.
Una volta ho visto un disegno di un girotondo grande con tutti i bambini di razze diverse, sembrava vero e possibile. Vorrei tanto che tutti gli adulti, e dico tutti, riescano a sorridere e ad accogliere in un abbraccio “virtuale”, tutte le culture, razze, religioni in modo che nel mondo non vi siano più guerre, uccisioni, povertà, per colpa di chi crede che quella persona è diversa ed è per questo che è considerata inferiore. Invece è bello pensare a un mondo fatto di pace e gioia, dove ogni uomo vive sereno senza pregiudizi e la parola diverso si cancellasse dal nostro vocabolario.
Un’amica gestisce un bar vicino a casa mia dove sono diventato habitué.
Lì ho conosciuto diverse persone interessanti, non perché abbiano avuto
vite eccezionali, ma proprio perché le loro esistenze si sono svolte e
continuano a svolgersi all’insegna della comune, ma nello stesso tempo
coraggiosa fatica di vivere.
C’è ad esempio Frau Gerda. Il suo cognome é impronunciabile:
Kleinprunkbad. Tedesca di origine e non più tanto giovane, in passato
faceva la hostess. Poi ha dovuto smettere perché tormentata da sempre più
gravi crisi d’ansia, probabilmente causate dai tragici eventi dell’11
Settembre accaduti a New York.
Kleinprunkbad ha un cane che si chiama Poldo, é una montagna di cane ed é
anche un vero ricattatore. Se vogliamo conversare senza essere disturbati
da lui, bisogna allungargli le patatine o una brioche dolce, altrimenti
continua a dare fastidio abbaiando dispettosamente e guardandoci
terribilmente in cagnesco, é proprio il caso di dirlo.
Gerda é adorabile mentre beve il suo bicchiere di champagne, le faccio
sempre compagnia con un casto succo di pomodoro.
Ha viaggiato molto, Frau Gerda, ora é di stanza stabile a Bologna dove
vive con il suo compagno Gianni.
Mi racconta i suoi problemi, peripezie di normale amministrazione:
dispute con la sorella, la pensione troppo bassa per vivere
dignitosamente, la salute non proprio ottima e la recente preoccupazione
per Poldo che si è dovuto operare ad un orecchio. Sono angustie, quelle,
il povero cane soffriva e lei non sapeva cosa dirgli per dargli un po’ di
conforto.
Poi c’è Silvana, 93 anni, pensate! L’ho aiutata ad attraversare la
strada. Voleva comprare un profumo per la nostra comune amica Chiara, la
barista del locale. Dice che é una giovane non solo bella ma anche molto
educata, gentile e premurosa con lei.
Poi Silvana mi ha chiesto di salire in casa sua perché voleva farmi
conoscere la gatta. Sono un appassionato di gatti e non ho potuto
rifiutare. Il felino di misure extra large si chiama Stella.
Silvana custodisce nell’anima una storia di davvero straziante dolore:
sua figlia poco più di trentenne si é impiccata al piano di sopra. Ha
lasciato scritto che non sopportava più la vita.
L’altra vicenda di Silvana é altrettanto tragica: é stata sposata per
soli dieci giorni, poi il marito è partito soldato per la Russia dove é
caduto su un anonimo campo di battaglia.
Ha fatto per vent’anni la “sfoglina” in un ristorante, la Silvana, che
era frequentato anche da Adriano Sofri. Era un così bel ragazzo, ricorda.
Molto gentile.
Stella per tutto il tempo si é sfregata contro la mia gamba lasciando i
suoi peli come se fossero tanti biglietti da visita.
Con Silvana mi sembra di aver acquisito una nonna, visto che di vere
nonne, nel senso affettivo ma anche pratico e reale, non ne ho mai avute.
la nostra cara vecchia stazione, oggi quasi fantasma, passa un treno o tre al giorno, ormai quasi dimenticata, per quelli che come me anni sessanta usavano il treno per andare nel nord Italia, chi partiva per la Germania oppure per altre nazioni, tutti emigranti che per necessita di lavoro e mantenere la famiglia in Sicilia, l’uomo partiva solo e lasciava moglie e figli e chi lasciava i genitori per cercare fortuna fuori dalla Sicilia, mandare i soldi hai propri familiari rimasti al paese Siciliano.
Quanti treni hanno visto questi binari, era un continuo andare venire di treni, giorno e notte non c’era sosta per questa cara stazione, i pianti dei familiari quando accompagnavano il marito o il figlio dopo una decina di giorni di ferie trascorsi al paese, purtroppo i giorni volavano in fretta e la domenica pomeriggio alle ore 14.00 la partenza del binario tre, il Treno Agrigento Milano era sempre affollata, valigie che occupavano metà banchina, viaggiatori che si passavano le valigie dal finestrino dei scomparti, solitamente vi era sempre qualcuno gentile che dava una mano a far passare queste valige dal finestrino, i corridoi affollatissimi e la notte ci si coricava nel corridoio come bestiame, sentivi gente che si lamentava del lavoro, gente che chiedeva se conosceva un parente a Milano, si parlava dei familiari che si lasciavano al paese, si faceva amicizia e con la scusa di offrire una sigaretta a qualche ragazza si diventava amici, chi era fortunato la rivedeva ancora dopo il viaggio arrivati a destinazione.
Si ascoltava le storie di ogni singolo passeggero, storie che sembravano avventure, storie di amicizie, storie di lavoro, tante storie tanti ricordi.
Oggi tutto questo non esiste più, oggi si parte in aereo e la grandi distanze diventano passeggiate e si è sempre vicino anche a migliaia di chilometri.
Ormai il treno Agrigento Milano non esiste più e stato soppresso verso gli’anni 2007, poi sono stati soppressi tanti altri treni, ormai molte stazioni che una volta erano sempre affollate sono soltanto stazioni fantasma, ogni tanto vado a farci un giro, i ricordi ti riaffiorano alla mente e inizi a viaggiare nei ricordi belli o tristi che si collegano in questa stazione di Enna, vi era un piccolo ristorante bar, dai vetri rotti si riesce ancora a vedere i vecchi tavoli e e il bancone, il ristorantino e stato chiuso nel inizio anni ottanta, vedere un pezzo di storia della tua gioventù commuove sempre…. siamo nel 2019 e il tempo alla stazione di Enna si è fermato nei anni ottanta, chiudendo il ristorantino e come se si è uccisa la stazione e nel 2007 si e dato il colpo di grazia, oggi girano soltanto fantasmi, chiudi gli’occhi e inizi a sentire il suono del treno in arrivo, senti il parlare di viaggiatori. ti sembra di ascoltare ancora le vecchie storie di emigranti che partivano per quel lungo viaggio in cerca di fortuna e mai più tornati al loro paese di Sicilia….
Una mia amica gestisce un bar, vicino a casa mia e spesso vado a trovarla. Lì incontro diverse persone interessanti tra le quali Mitzy, ormai un’amica; tedesca di mezza età che in passato faceva la hostess ma ha dovuto smettere perché ha iniziato a soffrire d’ansia (dopo il tristemente famoso 11 settembre?). Il suo enorme cane Poddy è buffissimo, vuole sempre le patatine oppure una brioche dolce ed in cambio ci lascia conversare in pace (in caso contrario abbaia noiosamente e ripetutamente, guardandoci con aria di rimprovero) mentre lei beve un bicchiere di champagne ed io un succo di pomodoro. Mi racconta dei suoi viaggi in giro per il mondo e della sua attuale, radicalmente cambiata, vita, col compagno Gianni, i problemi con la sorella, la pensione troppo bassa per vivere dignitosamente, la salute leggermente cagionevole e Poddy che si è dovuto operare ad un orecchio. Le vacanze a Rimini, gli aperitivi sul lungomare. Un giorno le ho proposto una lunga intervista che possa diventare un racconto. Poi c’è Marco, un giornalista di Repubblica che ora è tutto preso da Second Life e c’è rimasto male che io ancora non me ne sia interessato (a dir la verità l’ho cercato su Google, ho dato un’occhiata e non mi sono sentito più di tanto attratto ad approfondire). Quest’estate andrà in Puglia con la moglie ma dice che prima di partire per le vacanze mi telefona per un aperitivo. E ieri ho conosciuto Silvana, una signora di 93 anni che mi ha chiesto di essere aiutata ad accompagnare la strada: andava alla profumeria di fronte al bar a comprare una confezione di Jean-Paul Gaultier uomo, da regalare a Chiara (la barista/gestore) perché dice che è sempre gentile con lei e che se lo merita. Poi mi ha chiesto di salire in casa a prendere un caffè, perché voleva farmi conoscere la gatta: si chiama Stella, è grassottella (enorme!), affettuosa e con un bel pelo morbido e lucente, a chiazze bianco e nere. Sulla parete della cucina c’è la foto, vistosamente di altri tempi, di una ragazza: è la figlia, che a poco più di trenta anni si è impiccata al piano di sopra. Ha lasciato una lettera alla mamma per scusarsi del gesto che stava compiendo ma la vita, per lei, ha lasciato scritto, non era più sopportabile. Silvana ha avuto un marito per soli dieci giorni: poi è partito in Russia per la guerra e non ne è tornato vivo. Nonostante tutto, questa simpatica 93enne dice di non aver voglia di morire: è allegra e quando una sua amica le dice “vorrei lasciare questo brutto mondo” le risponde “Allora buttati giù dalla finestra!”. Ha lavorato per venti-cinque anni come sfoglina presso un noto ristorante bolognese dove, mi ha raccontato, veniva sempre a mangiare Sofri. “Che bel ragazzo che era!” Mi ha confessato Silvana. “E tanto gentile.” Stella si è sfregata per tutto il tempo contro una mia gamba. Un giorno mi farò raccontare dalla mia ormai acquisita nonna Silvana (tra l’altro una vera nonna, di fatto, non l’ho mai avuta) qualche storia in più e, col suo permesso, ve la racconterò.
Storie vere.
Quando il destino decide che non devi essere felice
Chiamiamola Sara. Io l’ho conosciuta.
Sulla foto era ancora adolescente, ma sarebbe diventata una bellissima donna.
Di famiglia numerosa, semplice, povera ma onesta, a diciott’anni viene assunta in un’elegante boutique di Bologna. Il proprietario, scapolo, a sua volta bello, sofisticato, di famiglia nobile, si innamora di Sara e lei di lui.
Lui la prende con sé nella sua splendida villa.
Sono felici.
Viaggiano insieme. D’estate vanno sui lidi più esclusivi, Sardegna e simili.
Un’estate lei, che adora il sole, desidera andare su un’isola greca. Lui invece vuole visitare la Scozia. Vince lui.
Ma in Scozia, con una macchina presa a noleggio, hanno un incidente. Lui muore sul colpo.
Lei ritorna in Italia con la bara del suo uomo sull’aereo.
Il dolore è devastante.
Lei si ammala di un tumore al cervello.
Se ne va, giovanissima, bellissima, lasciando la famiglia d’origine affranta.
Abbiamo così spesso l’impressione che il destino colpisce ciecamente.
Oppure, come dicevano gli antichi, il destino è geloso di quelli che sono felici.
Sole e Luna già Akhet-Aton, Centro Internazionale di Documentazione Interattiva Multiculturale, Centro Studi Esoterici & P.R.E.S.S Associazione di Promozione Sociale (APS) iscrizione Albo Libere Forme Associative del Comune di Bologna N° Archivio 1118 Prot. Iscrizione Albo 177837/1999 Comunicazione di avvio iscrizione online al Registro Regionale delle Associazioni di Promozione Sociale Protocollo Comune di Bologna PG 326344/2020 in data 20/08/2020. già "Akhet-Aton" sorta il 3 Novembre 1988 con atto notarile, Ufficio Atti Pubblici, il 23 Novembre 1988 al n°10372 codice fiscale 91186820378