Fairbnb, l’alternativa etica ad Airbnb

Se dovessimo
descrivere in poche parole Fairbnb, basterebbe dire che si pone come un’opzione
più sostenibile rispetto a piattaforme come Airbnb
, che offrono un servizio
simile per i viaggiatori alla ricerca di una sistemazione temporanea. La
differenza che salta immediatamente all’occhio è che, in questo caso e secondo
le promesse, al territorio rimangono
metà dei profitti
.

Resta però
una questione aperta: la sharing economy porta indubbi vantaggi ma a
volte sa anche mietere vittime: gli alberghi lamentano di essere stati colpiti
duramente da questi nuovi competitor che si muovono su un terreno
normativo più agevole. Di sicuro al cliente non dispiace questa nuova forma di
ospitalità.

Fairbnb.coop nasce nel 2016. Tre anni fa era un movimento con l’obiettivo di creare un’alternativa alle piattaforme di home sharing esistenti che fosse equa.

Le città di
partenza sono state Venezia, Amsterdam e
Bologna
, poi hanno iniziato ad aderire altri gruppi da tutta Europa che
hanno contribuito a sviluppare il modello finale che ad oggi è in fase di
attuazione.

Alla fine
dello scorso anno è stata creata una cooperativa che agisse da entità legale di
supporto al progetto, un’organizzazione aperta in cui si pensa di accogliere
altri aderenti.

Fairbnb.coop
si definisce come “una comunità di
cittadini attivi, ricercatori e persone provenienti dalle più varie esperienze
professionali che mirano a riportare la parola share (condivisione) nella sharing economy”.

L’idea alla
base è che la comunità ospitante va posta al centro e che vanno privilegiate le persone prima che il profitto.
Allo stesso tempo, l’offerta ai turisti è di esperienze di viaggio autentiche e sostenibili, con ricadute positive a livello sociale.

Secondo il
progetto, metà dei ricavi vanno
investiti in progetti di sostenibilità locali
che mirano a contrastare gli
effetti negativi del turismo. Se i
profitti restano il più possibile all’interno delle comunità e dei territori

la piattaforma si pone anche come mezzo di supporto e miglioramento attraverso iniziative
che spaziano dal social housing ai giardini
comunitari.

Quel “fair”
che compare nel nome della piattaforma è frutto di più fattori, tra cui
l’intenzione di condividere, con la massima
trasparenza
, i propri dati con le amministrazioni locali
perché possano analizzare il reale impatto del turismo; inoltre, si
applica la regola “1 casa – 1 host” per evitare l’ingresso di multi-proprietari
nella piattaforma e poter identificare un tipo di host sostenibile con
il mercato immobiliare per i residenti. Fin qui nessuna obiezione. Ma le anche
idee tanto sostenibili possono avere ripercussioni.

Abbiamo già affrontato il problema di come la sharing economy e la
sua degenerazione, soprattutto in città d’arte e mete turistiche, abbia portato
ad una trasformazione sregolata del patrimonio immobiliare e della sua
destinazione d’uso, sottratto ai residenti a favore del turista mordi e fuggi.
Venezia è l’esempio più citato: l’overtourism sta soffocando la città e
la maggior parte degli annunci immobiliari  sono ormai transitori e per non
residenti
. Conviene affittare per periodi brevi, con ricavi anche fino a mille
euro alla settimana, piuttosto che ai residenti. Nel caso di Venezia abbiamo documentato il
paradosso
per cui mancano alloggi di edilizia residenziale pubblica per i
veneziani
, case che in realtà esisterebbero ma restano sfitte e non
recuperate né recuperabili per anni: i residenti che vogliono riappropriarsi
della propria città non trovano spazi e si ritrovano “costretti” a occupare
quelle case sfitte, a rimetterle in sesto a proprie spese, nell’illegalità di
fatto, ma ripopolando giorno dopo giorno un territorio privato dell’autenticità
che soltanto un residente sa conferire. Tutto questo mentre le strade sono
invase selvaggiamente da turisti per lo più ignari della situazione, che
alloggiano in appartamenti affittati a caro prezzo o edifici interi anche di
pregio trasformati in hotel di lusso.

Ma il problema è molto più ampio. Parallelamente all’affermarsi di Airbnb e simili c’è una categoria particolare che si è sentita minacciata e lamenta la carenza di regole ferree applicate agli host. Gli albergatori si sentono minacciati. L’associazione che li rappresenta, Federalberghi, ha denunciato più volte, l’ultima proprio recentemente, il fenomeno: si moltiplicano gli alloggi su Airbnb così come le attività extralberghiere, con un conseguente aumento di servizi fai-da-te che producono una concorrenza sleale senza precedenti. Un far west, in cui gli annunci online non sono affatto una forma integrativa del reddito ma una vera attività, spesso con soggetti che gestiscono più alloggi, peraltro messi a disposizione ben oltre i sei mesi all’anno fissati come regola.  I dati confermano i timori: si registra un notevole calo di presenze e di fatturato per gli hotel. Solo a Roma, nel 2018 i numeri parlano di un -7,3% dei ricavi rispetto al 2017 nonostante l’aumento del prezzo delle stanze. Airbnb ha replicato più volte alle accuse, intanto varie città nel mondo sono corse ai ripari. A Barcellona  si possono affittare al massimo due stanze per appartamento, per non oltre 4 mesi all’anno e a patto che il proprietario vi risieda. Stessa regola della residenza del proprietario anche a New York, non è possibile affittare appartamenti interi. A Parigi si può affittare non oltre i 120 giorni all’anno, i proprietari devono iscriversi in un registro pubblico e l’amministrazione comunale ha dichiarato di voler vietare l’affitto nei primi quattro arrondissement per evitare uno spopolamento ulteriore del centro cittadino.

Fonte foto: https://fairbnb.coop/it/

Articolo del 3 Agosto 2020

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